
Una delle scene più importanti e significative di “Manhattan”, di Woody Allen (1979), è quella in cui Allen si sdraia sul divano e lascia andare i propri pensieri, affidando a un registratore le proprie ragioni per cui vale la pena vivere la vita. Mai scrittura fu più semplice ed efficace, e un intero mondo viene raccolto nella cornice di un’inquadratura fissa di un uomo che parla. Mike Mills prende questa scena e la toglie dall’interno dell’appartamento, basandoci un intero film che respira e viaggia. Respira l’America delle grandi città, piena di ragazzi nascosti che auspicano un cambiamento senza avere le risorse per attuarlo; respirano i personaggi alla ricerca di qualcosa che faccia fare loro pace con il passato; respira lo spettatore assaporando i paesaggi esaltati dal bianco e nero. Detroit, New York, New Orleans, Los Angeles: ognuna di esse con quella mitologia urbana che le contraddistingue, con la propria cadenza e i propri contesti.
Joaquin Phoenix interpreta Johnny, un giornalista radiofonico intento a viaggiare di città in città per raccogliere le opinioni dei teenager figli del riscaldamento globale e l’instabilità politica. Il film salta tra la commedia e il documentario, lasciando ampio spazio all’opinione dei giovanissimi che rappresentano la nuova America. Le opinioni sono semplici e poco articolate, ma credibili. Come le domande poste dal protagonista, d’altronde: “Cosa pensi del futuro?”, “Come ti vedi da adulto?”, “Quali sono le tue più grandi paure?” E da qui si articolano le preghiere laiche di una generazione di inascoltati. Johnny ha una sorella, Viv (Gaby Hoffmann), la quale vive un matrimonio complicato con un marito che entra ed esce in continuazione dagli ospedali psichiatrici. Dovendo stare accanto a lui in seguito a una nuova crisi, Viv chiede al fratello di occuparsi per un po’ di tempo del figlio Jesse (Woody Norman). I due si troveranno a legare per la prima volta, vista la lontananza di Johnny e Viv, che è sia geografica che spirituale. Jesse è un ragazzino tremendamente intelligente e cervellotico. Definito più volte “strano” dagli altri personaggi, è solitario e inaccessibile. Sembra inadatto a essere un bambino. Johnny è in difficoltà per tutto il film, trovandosi a svolgere un ruolo improvviso di quasi-padre che non aveva previsto. Non è un caso che il film abbondi di primi piani e riprese intime, favorite da un chiaroscuro squisitamente sentimentale, alternati a campi lunghi messi in risalto dalla profondità di campo.
L’opera di Mike Mills è, fondamentalmente, un film sull’importanza di saper ascoltare. I personaggi si aprono ai dialoghi, che costituiscono il perno centrale di tutto il lavoro. Allo stesso modo, viene richiesto allo spettatore di mettere a disposizione la propria attenzione, per lasciarsi trascinare all’interno delle paranoie e le fissazioni dei personaggi che di volta in volta offriranno una piccola parte di loro stessi. Questo viene recepito specialmente grazie all’ottima performance del trio attoriale principale. Phoenix è sempre una garanzia; Gaby Hoffmann ha lavorato benissimo sulla comunicazione di una fierezza guerriera piena di ferite; mentre il piccolo Woody Norman riesce a rendere credibile una caratterizzazione alquanto sopra le righe attraverso una recitazione sommessa. Al centro di ogni sviluppo c’è il registratore di Johnny. Lo strumento umano garantisce che le esperienze vengano incise e rimangano ferme nel tempo. Passa attraverso questi vezzi la tendenza umana a raggiungere l’immortalità, di fissare nel divenire della vita un segnale del proprio passaggio. In questa adorabile e infantile insicurezza si instaura la fragilità dell’essere; la consapevolezza del tutto “alleniana” dell’inutilità della pianificazione. Con il pallino perenne che esista un solo giro di giostra. Per cui, non ci resta che fare il tifo perché accada ciò che ci fa stare bene. “C’mon, c’mon… c’mon, c’mon…”
Il film pone anche un accento sull’equilibrio tra l’essere auto-referenziali e preoccuparsi degli altri. Johnny ascolta per mestiere, ma è un adulto che viene da una vita di conflitti. La relazione con la sorella è pacifica ma silenziosa, dopo le turbolenze in seguito alla morte della madre. La particolarità è che questo è un film immerso nella serenità e nella calma. Dopo Joker, Phoenix si allontana dal personaggio che sguazza nella miseria. Qui ha un lavoro proficuo, la possibilità di viaggiare, mezzi a disposizione. Tuttavia, è totalmente incapace a comunicare sé stesso. Jesse questo lo sa, e lo incalza spesso, cercando di rovesciare quell’apparente relazione di autorità che il “grande” cerca in ogni modo di stabilire. Un bambino nato nell’era degli smartphone, dove tutto è registrato ma svanisce appena smette di essere riprodotto solo per rimanere negli archivi dell’eterna memoria digitale, che rimane affascinato dalla possibilità di incidere dei suoni in una scatola.
La scrittura dei dialoghi è anche abile a far oscillare la considerazione del pubblico nei confronti di Jesse. Il bambino, carattere difficile, si trova in varie occasioni a pretendere qualcosa da Johnny. Sembra volergli rendere la vita difficile, in alcune occasioni sfoga il suo lato più bambinesco con capricci non necessari. Poi, però, la sceneggiatura (eccessivamente piena a tratti, e che fa un po’ troppo uso di citazioni letterarie) ci offre le motivazioni per cui Jesse si comporta in quel modo. A quel punto, dopo averlo ascoltato a dovere, non possiamo fare a meno che empatizzare con lui e sentirci un po’ in colpa per la nostra superficialità, lasciandoci sciogliere da questo rapporto tra zio e nipote che inizia a ingranare. È un classico cliché narrativo, quello del bambino saggio che dà una lezione all’adulto sprovveduto, eppure questa pellicola riesce a renderlo interessante, affondando tutto in un contesto più ampio. La contrapposizione generazionale messa in scena è tutt’altro che contrastante. È anzi complementare. In reciproco sostegno.
Voto: 7,5
Edoardo Cappelli