Jacob Storr è un capitano (mercantile) di lungo corso, un uomo abituato al mare ed alla sua personale solitudine. Mai sposato, abituato alla totale libertà del mare, alla sola compagnia degli uomini, si ritrova, sulla soglia della mezz’età, a fare i conti con i propri sentimenti, scoprendo che l’assenza di un legame stabile e di un affetto solido lo stanno minando nel fisico prima che nello spirito (ed ecco comparire il ‘mal del marinaio’).
Decide quindi a tavolino (letteralmente: al caffè, con l’amico Kodor) e quasi per scommessa, di sposare la prima donna che entrerà nel locale: (s)fortuna vuole che sia la giovane, e bella, e inquietante Lizzy, che con altrettanta leggerezza accetta la sua assurda proposta di matrimonio.
Quel che segue è inevitabilmente un progressivo disastro affettivo: alle lunghe assenze di Jacob, che sulle prime continua ad andar per mare (per mesi) corrispondono le tresche della giovane moglie, da lui sempre sospettate e mai scoperte.
Sarà inutile anche il tentativo di un impiego a terra, che ormai Lizzy usa quasi scopertamente Jacob per i suoi capricci, in un tira e molla logorante che porta lui al tentato suicidio prima, e finalmente all’abbandono e al divorzio.
Un drammone, insomma. Magari non originale, ma pur sempre un dramma dei sentimenti, con ruoli quasi iconici, da manuale.
Eppure non è facile ‘salvare’ “Storia di mia moglie”, sostanzialmente affetto da un malinconico difetto di sceneggiatura e di regia.
Gli attori, e ci sono: belle interpretazioni, buon affiatamento, quanto basta di naturalezza nel vestire i panni degli Anni Venti.
La fotografia è interessante: la luce del mare e le penombre del porto, qualche sguardo un po’ diverso nelle scene di bordo, gli interni borghesi (l’appartamento di Parigi, la casa assai più modesta di Amsterdam) ripresi con discrezione.
Le ambientazioni sono poi molto curate, convincenti. E possiamo anche segnare a merito qualche personaggio secondario ben azzeccato.
Ma l’insieme non convince, perché anche se “Storia di mia moglie” ha se non altro il merito, tutto sommato, di sfuggire allo stereotipo in agguato (visto il plot), manca di un tono chiaro e sembra confuso, più che volutamente ambiguo.
Valga il caso delle ‘comparsate’ ricorrenti dell’amico Kodor (Sergio Rubini, forse l’unico completamente fuori ruolo), che vorrebbero sembrare il deus ex machina del racconto, ma francamente risultano incongruenti e fuori posto.
Alla fine quel che resta sono due ore e quaranta di un micidiale tira-e-molla tra lui e lei, in una successione di tradimenti evocati (temuti) da Jacob e mai rappresentati, e di mortificazioni e umiliazioni da parte di Lizzy che lui disperatamente (forse) vorrebbe del tutto sua, ma che invece gli è del tutto aliena.
Aliena, forse, anche nel senso di anaffettività: sensualità si, tanta, ma empatia e sentimento zero. Questo lei, Lizzy.
Lui invece ha scoperto la piena dei propri sentimenti, cui però pensa o spera di poter aprire e chiudere a piacimento la diga (secondo il ritmo assenza / presenza dei suoi viaggi per mare), e non riesce a liberarsi dal desiderio di lei.
Una liberazione, per Jacob, il divorzio e tutto sommato una liberazione per noi la conclusione del film…
Voto: 6
Davide Benedetto
Adattando al film un vecchio e saggio proverbio, si potrebbe dire che: “Chi va per questi mari, queste Sirene trova!”. In quanti modi, detto diversamente, si può giocare alla “roulette russa” con la Dea Probabilità? La modalità più famosa e drammatica l’ha colta a suo tempo il regista Michael Cimino con “Il Cacciatore”, mentre lo scrittore Milán Füst ne offre una versione originalissima nel suo romanzo “La storia di mia moglie”, che nella sua riduzione cinematografica è uscita sugli schermi italiani il 14 aprile scorso. Nel primo caso, il piatto rotante della roulette è sostituito dal tamburo girevole del caricatore della Colt dove un solo colpo è inserito; mentre nel secondo al posto dei numeri compaiono volti di donna “coperti”. Nel senso che soltanto quando la pallina si sarà arrestata casualmente su di una casella, solo allora apparirà in chiaro il viso della prescelta che, a questo punto, diverrà Tua Moglie per scelta e per caso, del tipo “quella che entrerà per prima dalla porta del bistrot”. Sembra facile, ma in realtà la combine è davvero difficilissima. Per una serie evidente di fattori, di seguito specificati. In primis, tu che scegli a caso ruotando il piatto e tirando la pallina lungo il corridoio di scorrimento, sei nella vita uno stimato capitano di lungo corso che passerà per la propria casa (quando ci sarà, beninteso) una volta ogni quattro mesi, se non ancora più di rado: quindi il rischio dell’adulterio ha per te una probabilità massima di avverarsi, quasi pari alla certezza. In secondo luogo, devi trovare di primo acchito una donna che giochi il tuo gioco dicendoti “Sì, ti sposo”, malgrado ti abbia visto solo quella prima volta. Infine, se non conosci nulla a priori di lei non avrai certamente modo di scoprirlo con le tue frequentazioni domestiche così distanziate.
Pertanto, la probabilità che una scelta così folle possa produrre un sano rapporto di coppia è quasi pari a... zero. Ma, per l’appunto, l’Assurdo nella vita di ciascuno di noi ha sempre campo libero e nessuno può sbarrargli la strada. Così l’inverosimile accade: il Capitano Jacob Störr (Gijs Naber) incontra un’enigmatica signora francese, Lizzy (Léa Seydoux), dopo aver lanciato il guanto di sfida al suo squattrinato amico d’infanzia Kodor (Sergio Rubini), che da straccione diventerà un capitalista senza scrupoli grazie al malaffare. Nel film, in base a una lente psicanalitica che tenta di indagare nelle pieghe più oscure della personalità umana e del rapporto conflittuale uomo-donna, vengono spietatamente messi a confronto due profili incompatibili: l’assoluta fedeltà e onestà di lui, con l’esatto opposto di lei che, in una foga di contraddizioni, alterna luci e ombre di passione/indifferenza per suo marito, compresa l’umiliazione del partner. Cosicché chi osserva il tutto dall’esterno viene lasciato con il fiato sospeso, per cui l’ingenuo prenderebbe volentieri a schiaffi l’uno e l’altra. E poiché “l’Inganno è Donna”, lo stereotipo insegue come un leit-motiv tutte le sequenze di un rapporto decisamente malato dalla dipendenza univoca dell’uno verso l’altra, che ama ma fa quel che le pare, alternando a suo piacere apparenti fedeltà e infedeltà, per cui non si capisce mai bene quando agisce l’una o l’altra di queste condizioni.
L’altro contrafforte, che sostiene come un muro di spinta la contraddizione dei comportamenti sociali, sta nell’estrema serietà del lavoro di comandante di nave, denso di responsabilità per la sicurezza dell’imbarcazione e dell’equipaggio, soprattutto nelle situazioni di emergenza e di tempesta, contrapposto alla vita tutta champagne, pailette e feste in maschera, con la predilezione di lei per la vita notturna piena di chiacchiere vuote, corteggiamenti di bellimbusti e cene eleganti nei bistrot alla moda. E questi comportamenti irrefrenabili di sua moglie rappresentano sentimentalmente per Jacob una sorta di boa invisibile, che ogni giorno serra le sue spire attorno al suo corpo robusto e tabagista, soffocandolo con dolcezza. Il suo supplizio sta in quell’alternarsi dei momenti di esaltazione tra le gambe di sua moglie, quell’inseguire e assecondare i suoi baci e le sue voglie, coniugati alle visioni sempre più concrete del suo manifesto distanziamento, soprattutto nelle occasioni pubbliche legate all’eterna giostra del divertimento, dove c’è da esibire questo marito alieno ad amiche e conoscenti, magari ridendo di lui. E si può ben capire come questa giostra di sentimenti controversi produca in un animo nobile e puro come quello di Jacob la stessa turbolenza dei mari irrequieti forza otto/nove, in cui l’emotività solleva onde altissime e le mani prudono, per cancellare l’affronto di un rivale sfrontato cui tutto è permesso. E questo perché una moglie contorta ha bisogno di stimoli sempre nuovi, come accade per le dosi di stupefacenti che creano presto assuefazione nel dipendente, provocando la costante necessità di aumentare la dose, fino allo sfinimento, fino alla sua invitabile, drammatica conclusione.
Alla fine, concludono regista e Autore (al termine di quasi tre ore di proiezione, decisamente un po’ troppo lunghe, con i suoi svolgimenti sempre molto lenti), a te Capitano non resterà che il fantasma di lei, con la tua testa incorniciata nell’oblò, come in un quadro di Van Gogh, per una navigazione solitaria e circolare.
Voto: 7,5
Maurizio Bonanni