La Tana

28/04/2022

di Beatrice Baldacci
con: Irene Vetere, Lorenzo Aloi, Helene Nardini

È estate. Siamo in una campagna imprecisata, dove non c’è nulla al di fuori di un lago, qualche campo e tanti alberi. Il giovane Giulio (Lorenzo Aloi) passa le vacanze ad aiutare la famiglia prendendosi cura dell’orto. Sono abituati alla solitudine, nessuno passa più da quelle zone da un po’ di tempo. Un giorno, nel casale dei vecchi vicini compare Lia (Irene Vetere), una ragazza schiva e apparentemente gelida. Giulio se ne innamora, ma Lia sembra giocare con il ragazzo, concedendogli da una parte le sue attenzioni, mentre dall’altra lo allontana costantemente. Nella seconda metà del film prendiamo il punto di vista della ragazza, andando così a indagare all’interno del suo mondo, del suo rifugio. Della sua tana, per l’appunto.

Ciò che stupisce prima di ogni cosa a livello tecnico è la scelta del formato del film. La Baldacci rifiuta il formato classico per un più stringente 1,37:1, utilizzato non tanto per creare claustrofobia, quanto per avvicinarci ai volti degli attori. È, di fatti, un film colmo di primi piani: allo spettatore è richiesta la volontà di seguire i personaggi e la loro intimità, come se si spiasse da una fessura di un muro. È attraverso questa vicinanza che riusciamo a percepire la duplice funzione degli ambienti interni. Quando la comfort zone di Lia – fittizia, in quanto richiede degli sforzi inverosimili – diviene troppo invadente, preclude l’evoluzione alla ragazza, totalmente incapace a instaurare una relazione sana con l’ingenuo e sentimentale Giulio. Lia esprime il suo bisogno di libertà in maniera ambigua e a tratti pericolosa. Ogni qualvolta scopre un minimo il fianco per lasciarsi coinvolgere dal rapporto con Giulio, la ricerca-pretesa di normalità di quest’ultimo la fa retrocedere. “Scopre il fianco” anche letteralmente, in quanto parliamo di un film che esplora i corpi in modo sincero, nella loro imperfezione e acerbità adolescenziale, senza vergogna o finte censure (anche se rimane sempre su una soglia che non si prende mai dei veri e propri rischi).

Qui si instaura il conflitto cinematografico dell’opera tra l’interno (cupo, polveroso, immobile) e l’esterno (chiaro, ampio, differenziato). L’isolamento derivato dagli orrori della vita ci permette di stare al sicuro da stimoli esterni difficili da elaborare. Allo stesso modo, però, si fa prigione e ci impedisce di comprendere il mondo. L’invito del lavoro della Baldacci è quello di uscire dalla propria tana, mantenendo però quel tratto realistico che non lascia spazio a decisioni facili o a finali felici da fiaba disneyana. La motivazione del comportamento di Lia è infatti tremendamente personale e difficile da decifrare, ed è ciò che porta il film a cambiare punto di vista nella seconda metà. La natura è l’elemento che più di ogni altro caratterizza il mondo al di fuori della tana. I fiori, in modo particolare, hanno un’importanza rilevante all’interno della storia. Bellissimi per quanto fragili, i fiori sono la perfetta (e forse un po’ troppo evidente) metafora dell’animo di Lia.

Il film soffre di tutti i difetti tipici delle opere prime. Gli elementi narrativi sono a tratti ripetitivi; le metafore sono lievemente troppo didascaliche; la recitazione dei due protagonisti è poco incisiva; la gestione dei rapporti tra i personaggi soffre di una certa asimmetria e c’è la volontà di mettere molti elementi insieme, senza però avere il tempo di approfondirli. Inoltre, la seconda parte sembra guardarsi un po’ troppo allo specchio, insistendo in maniera eccessiva sulla dinamica della malattia, mancando di coesione con l’elemento iniziale. Al netto di questo, però, “La Tana” riesce a parlare col cuore di qualcosa di estremamente personale (la storia è in parte autobiografica) e complesso, già anticipato nel cortometraggio con cui la regista si è fatta conoscere, “Supereroi senza superpoteri”. Qui viene continuato il racconto della malattia della madre, interpretata nel lungometraggio in questione da Helene Nardini. Ed è qui che la relazione e gli scambi tra i due giovani, simboli di una giovinezza piena di vita che si rivela in una reciproca attrazione, lascia spazio al racconto del decadimento umano della malattia. Scoperta e dolore, dinamismo e stagnazione. Vanno aggiunti il gusto della regista per il silenzio e i meriti di un lavoro fatto per sottrazione. Inoltre, è d’obbligo annotare la quasi totale assenza di musica, affidata solamente alle scene in cui vi è un’esplosione emotiva da riportare.

Voto: 6,5

Edoardo Cappelli