Come respira la terra desertificata degli altopiani boliviani? A fatica. Quasi rantolante, si direbbe, seguendo le camminate solitarie di un pastore in là con l’età, in una terra screpolata come le mille rughe dei bei volti severi, sereni e senza tempo della coppia di protagonisti, Virginio e Sisa, il cui amore, dai gesti lenti e solenni, appare antico come la stessa Madre Terra. Nel film “Utama” (nelle sale italiane dal 20 ottobre) del regista Alejandro Loayza Grisi, con Santos Choque (Clever), José Calcina (Virginio), Luisa Quispe (Sisa), dall’inizio alla fine il respiro corto e affaticato di Virginio dà il ritmo, prevale su armonie musicali e paesaggi desertici attraverso i quali si muove lo stesso protagonista, un uomo anziano senza epoca e fuori dalla modernità, con la sua bellissima mandria di lama, primitiva come quella sua terra boliviana piena di rocce e arbusti. Virginio ha un solo pensiero: sua moglie Sisa che attende, come fa da sempre, il ritorno del suo fedele compagno che si alza con lei puntualmente all’alba di ogni giorno per pascolare i lama. Per sua moglie, quando un riflesso lo attrae, Virginio sceglie bellissimi sassi che lucidati costituiscono un presente, un regalo di pensiero ben più ricco e lucente di quella povera testimonianza d’amore ma adatto per colei che nulla vuole, se non passare la vita assieme a lui, in una casupola di terra e fango, dispersa nella terra arida, con la rara acqua da prendere in un pozzo lontano, al centro di un paese fatto degli stessi stenti e dello stesso materiale precario, di gente dura che resiste malgrado una siccità che uccide, e spinge a emigrare verso la città per non morire.
Quando la sete devasta gli altopiani, con un cielo spietato in cui brilla il sole per l’anno intero, allora l’acqua è Dio e si implora la sua benevolenza salendo sulla montagna sacra, per fare sacrifici ancestrali in suo onore. In questo scenario di pre-morte, nel piccolo villaggio sperduto, dove l’unica pompa d’acqua rimane desolatamente a secco, resistono soltanto un gruppo di anziani, uomini e donne, mentre i giovani sono tutti partiti verso la città per sopravvivere e non tornare mai più. In questo progressivo abbandono della vita collettiva, scorre come un fluido caldo nelle vene il sentimento costante di una coppia inscindibile e assoluta. Un flusso vitale quest’ultimo che procede denso e compatto, come una goccia d’acqua per l’assetato, attraverso i gesti mille volte ripetuti di Sisa, che si muove sulla base dei ritmi immutabili del giorno che passa, attendendo il ritorno di Virginio che accoglie in un silenzio carico di intese complici, con un povero pasto accuratamente preparato in ciotole povere e dignitose, su di una tavola spartana tuttofare. All’improvviso, in questo luogo desolato, compare come un fulmine a ciel sereno il nipote, Clever, inviato in avanscoperta dal padre lontano, fuggito in città e mai più tornato, per verificare lo stato di salute e i bisogni inevasi dei suoi adorati Vuela e Vuelo (nonna e nonno). La prima, immediatamente accogliente e spontaneamente materna. Il secondo prevenuto, perché vede nel nipote un messaggero di colui che non osa più presentarsi al cospetto dei genitori che si ritengono in qualche modo traditi dal suo allontanamento, poiché a quel punto sarebbero restati da soli a dividersi la dura fatica quotidiana di pastori. Virginio, però, ne conserva il ricordo nel profondo della sua anima e in una logora foto tessera, contenuta assieme a piccole pepite d’oro in una piccola scatola di metallo, nascosta nell’unico scaffale della sua povera casa.
Clever porta sì una modernità indesiderata, con i suoi gadget (walkman e cellulare), ma pone altrettanta cura nel suo breve soggiorno per sollevare in ogni modo i suoi nonni dalla fatica del lavoro, accompagnando Virginio alle prime luci dell’alba lungo le piane semidesertiche dell’altopiano, o all’abbeveratoio dell’unico esile fiume rimasto nella valle, non più nutrito dallo scioglimento delle nevi ormai scomparse dalle montagne circostanti. Inevitabilmente, il mite Clever si vede costretto a contrapporsi ai malumori del nonno che rifiuta di ammettere l’esistenza stessa della sua malattia, ormai allo stato terminale, e di farsi curare pretendendo, addirittura, che Sisa lo debba seguire nella tomba, come accadeva al tempo degli indios precolombiani, mentre il nipote giustamente vuole portarsi la nonna in città per farla riposare e passare gli anni che le restano accanto a lui e al padre, unico figlio di Sisa e Virginio. Ma, il sacro Dolmen deve riposare nella sua terra d’origine, in cui la sua funzione trova un senso e i suoi fedeli adoratori, e Sisa rimasta sola non abbandonerà quella tradizione, fiduciosa che la pioggia verrà a ristorare tutti gli equilibri smarriti.
Voto: 8,5
Maurizio Bonanni