The Fabelmans

22/12/2022

di Steven Spielberg
con: Gabriel LaBelle, Michelle Williams, Paul Dano, Seth Rogen, Judd Hirsch

Steven Spielberg dirige il suo film più intimo e personale che è anche un inno d’amore per il Cinema. Un amore che inizia con gli occhi sgranati davanti al primo film, con il tremito della prima cinepresa e che accompagna il piccolo Fabelman negli anni. Attraverso i filmini che gira con impegno il bambino e poi il ragazzo osserva la vita e la propria famiglia e la racconta, negli spostamenti di città in città, e ne scopre, nei fotogrammi nascosti della pellicola, i segreti che infrangono l’illusione cristallina di un’armonia e una felicità perfette, così come gli apparivano mentre le ritraeva. Fabelaman guarda ciò che gli sta attorno sempre con quel terzo occhio, inseguendo un sogno, inventando storie. 

Quello che la madre, artista inquieta e insoddisfatta, gli insegna come una grande magia e che il padre, uomo di scienza dal carattere dolce, gli descrive come una meraviglia tecnica, lo accompagna attraverso la vita. Gli fa affrontare il razzismo dei compagni di scuola trasfigurandoli come eroi, fino a portarlo alle porte di Hollywood e a un enigmatico incontro con John Ford (interpretato da David Lynch).

E’ impossibile per noi non vedere dietro al ragazzo che gira con gli amici un film di guerra il futuro Spielberg di Salvate il Soldato Ryan e così tanti accenti e ricordi sono mescolati da quello stesso strumento magico che sta al centro del film. The Fabelmans è l’Amarcord, il Radio Days di Spielberg che si avventura nuovamente in quel mondo di cristallo tanto caro al suo Cinema che è l’infanzia. Di sfondo musiche, costumi, umori e atmosfere segnano il passare degli anni, ma la cronaca resta sempre lontana da questo microcosmo familiare che scorre su binario a sé. Attorno ad una madre luminosa eppure incompleta nella sua tumultuante sensibilità.

Voto: 8

Gabriella Aguzzi

Spielberg è tornato a dirigere un film. Troppe sono state le aspettative e troppi i giudizi frettolosi, le recensioni a priori cariche di riconoscenza e amore custodito per un regista come pochi e il suo cinema. Non è il capolavoro che si vocifera sia. È solo un film personale e per pochi, per chi il cinema lo respira e non lo annusa ogni tanto, per chi ne fa il cibo dell’anima. È un tributo sontuoso alla famiglia e all’adolescente che il regista è stato. Ma quanto la prodigiosa regia (Golden Globe 2023 come miglior film drammatico e miglior regista) riesce a dare, una sceneggiatura gracile riesce a togliere.

Centocinquanta minuti che non pesano ma visivamente spiazzano per la quantità dei contenuti biografici. Dolosamente, è voluto, è più di un solo film: ne contiene diversi, piccoli. Di quanto amore per il cinema e per lo stesso regista dobbiamo predisporci? Ne serve tanto. Spielberg ha il talento di trasformare ogni ripresa in un miracolo, di narrare con gli occhi più che con le orecchie: diverse tra le scene più belle non hanno voce, i personaggi parlano ma non li si sente, c’è solo una bellissima colonna sonora di sottofondo, il melanconico suono di un pianoforte. E la parte più toccante è un omaggio esclusivo alla propria mamma, Mitzi, una meravigliosa Michelle Williams che merita un Oscar, perché il film è soprattutto lei: la sua gioia e le sue lacrime, il suo amore ferito per il marito e proibito per uno “zio” acquisito, Bennie, che è sempre presente: l’attore comico Seth Rogen che mi chiedo perché sia stato scelto per un simile ruolo in un simile contesto drammatico.

Mitzi è triste perché deve fingere di amare l’uomo sbagliato per non distruggere la famiglia che ama. Mitzi che non riesce a sorridere se non accanto a Bennie. Bennie che non ci spieghiamo il perché sia sempre così presente e difeso da Mitzi. Mitzi è un uragano, tenta persino di inseguirne uno in macchina coi figli. In lacrime, stremata da una vita finta spiega al figlio Sammy (alter ego di Spielberg) che “la vita è personale, sacra” e non la si deve dare a nessuno; che la felicità non è sacrificarsi, non è immolarsi a un dolore costante e inutile ma sopravvivere per diventare migliori. Lo fa con una grazia attoriale che commuove.

Vi  è altresì una superficialità narrativa che toglie spessore umano e utilità morale al personaggio del padre, Burt, interpretato da un ispirato Paul Dano. Non è la sola madre a contribuire al sogno di Spielberg ragazzino: il padre è più razionale, un ingegnere, ma ha cuore ed è gentile, sempre presente; si prende cura, ignorandone per ingenuità il tradimento, di sua moglie come meglio può, fa tenerezza. Tanto è goffo quanto intelligente. Spielberg però registicamente non lo premia, gli attribuisce inconsciamente la parte del cattivo. Burt in realtà è la vittima di una donna dalla energia vitale dirompente, straripante. Il film può indurre a fraintendimenti. Il padre e la madre sono allo stesso tempo coloro che danno e tolgono, entrambi necessari: il limite e il conseguente superamento. La poetessa Nelly Sachs, premio Nobel per la letteratura, lo spiega in una sua poesia: “Un po' di stoltezza mostra e rivela il pregio della sapienza e della gloria suprema più di tutte le altre vie del mondo. Il vantaggio della luce non viene se non dalla tenebra. Qual è l’ornamento del bianco? Il nero. Se non vi fosse il nero, il bianco sarebbe riconoscibile, e per via del nero il bianco si innalza e diventa prezioso”. Ecco, Mitzi e Burt sono la luce e la tenebra, il bianco e il nero. 

Ribadisco, troppo “cinema”, e che cinema, è volutamente concesso alla madre Mitzi, una gigantesca Michelle Williams, perché ci si possa concentrare esclusivamente sulla vita di Sammy. È l’unico errore artistico di Spielberg, ma va a favore di chi come noi ama il cinema. Non si può pretendere che un castello di emozioni sia tale senza una regina. 

Merita plauso la piccola intensa parte dello zio anziano della mamma, Boris: l’attore Judd Hirsch, indimenticabile psichiatra del capolavoro dimenticato “Gente Comune” di Robert Redford. A lui spetta ricordare al giovane Sammy-Spielberg in pochi minuti che “l’arte è sacrificio, fa male, conduce alla solitudine ma se affrontata premia”. Che signore del cinema Hirsch! 

Irriconoscibile David Lynch nella parte di John Ford, regista che con la metafora dell’orizzonte cinematografico darà al giovane Spielberg il coraggio di affrontare le prime delusioni artistiche. Portentoso cammeo di pochi minuti: entra in scena con il rossetto di un bacio stampato sulla guancia e la segreteria che gli corre dietro a fatica per cancellarlo con un fazzoletto. Si accende un sigaro enorme, ha una benda sugli occhiali da pirata. Straordinario. 

Questo film è un labirinto cinematografico, artistico e umano: nulla deve essere tralasciato di ciò che si vede se si vuole trovare l’uscita, un senso, la “fine”. 

Voto: 7

Damiano Landriccia