Un pulviscolo dorato, magico. E’ la magia che si sprigiona dalla pellicola, quella striscia di celluloide che passa nella cabina del proiezionista e illumina lo schermo e le vite di chi lo guarda. Hilary lavora in un cinema, un vecchio cinema déco su un lungomare della costa inglese con alcune sale ormai chiuse e abbandonate, ma non vi è mai entrata a guardare un film. La sua è la vita di una donna sola, depressa: sesso veloce in ufficio con il direttore del cinema, periodi in ospedale per disturbi nervosi, una grande passione per la letteratura. E una storia d’amore “proibita” con il nuovo impiegato, un ragazzo di colore, nell’Inghilterra razzista di inizio Anni Ottanta. Ma un giorno entrerà nella sala e ne subirà l’incanto.
Stupenda è l’ambientazione di questo film di Mendes che con il Cinema canta la poesia del Cinema, rifugio di chi vive una quotidianità mediocre, e racconta chi attorno a questa casa lavora, i loro intrecci, le loro piccole cose. Le luci dell’Empire si accendono su quel lungomare invernale dove dilaga l’odio razziale e i manifesti dei film invitano a sognare. L’amore segreto, senza speranze e senza sbocchi, conferisce quel tocco mélo alla Douglas Sirk a una storia minimalista di vite solitarie.
Stupenda è Olivia Colman, intensa, struggente anche quando sorride, in ogni passaggio di emozione, ogni sfumatura. Attorno a lei un cast magnifico, da Colin Firth a Toby Jones, perché gli attori inglesi hanno il dono di lavorare di sottrazione, di essere veri. Empire of Light è un’ode alla nostalgia dell’Inghilterra che fu, con tutti i suoi errori, ma che faceva comunque parte della nostra giovinezza.
Voto: 8
Gabriella Aguzzi
Qual è “L’Età dell’Amore”? Quella eterna del Cupido, fissato nei secoli all’interno del riquadro degli affreschi murali della classicità; oppure quella sempre transeunte e transumante delle varie età della persona, ora giovane e superficiale, ora matura e intensa? Ebbene, il regista Sam Mendes nel film “Empire of Light” investiga con la sua rete a strascico i fondali fertili e oscuri dei sentimenti umani, tirando su entrambe le specie marine sulla tolda di una nave stilizzata, come il bellissimo edificio del cinema Dreamland in cui è ambientato il set. L’immobile avveniristico fu costruito nel 1935 dagli architetti Julian Rudolph Leathart & W.F. Granger, e ricorda a sua volta edifici sul tipo dell’Università di Leichester di James Stirling, o quelli immaginari rimasti sulla carta, come la città futurista di Sant’Elia, disegnata a carboncino o ricolorata. Il vascello di Mendes ha sempre le vele sentimentali piene di vento, essendo metaforicamente una nave-scuola comandata dalla cinquantenne Hilary (una stupenda Olivia Colman), vice direttrice della multisala Empire al Margate Beach, che si affaccia sul lungo pontile sospeso sopra la spiaggia. Hilary si nutre dell’energia giovane dei suoi marinai ai quali, a sua volta, fa dono della propria esperienza, e le sue dosi d’affetto rappresentano molto più di ciò che lei stessa, in moti alternati di disperazione depressione e felicità, afferra con le mascelle sempre costantemente serrate, per soddisfare i desideri proibiti di una vita sentimentale e sessuale che l’età non respinge ma, anzi, divora con la bulimia di un cannibale.
Zitella un po’ bipolare, Hilary è vittima-carnefice del suo superiore, Mr. Ellis (un bravissimo Colin Firth), del quale, nelle ore d’ufficio, prima o dopo le proiezioni, subisce il sesso orale o quello ancora più spiccio e a-sentimentale della posizione del missionario, riversa sul ripiano della scrivania. Ma la vendetta è donna e Hilary, in quei primi anni ’80 dell’Inghilterra di Margaret Thatcher e della violenza razzista degli skinhead, infrangerà a modo suo il tetto di cristallo della disparità uomo-donna, riversando la sua travolgente passione per la poesia sugli allibiti conformismi delle autorità convenute, per poi mettere spietatamente a nudo la fragilità fedifraga di un Mr. Ellis preso in trappola davanti al pubblico dei suoi dipendenti. Al centro della storia, l’amore maturo (e ricambiato!) di Hilary e del suo giovane collaboratore di colore, Stephen (Micheal Ward, perfetto nella parte), figlio di immigrati martiricani, con profonde cicatrici emotive, ricordo di gesti razzisti e di ambizioni riposte nel cassetto, come la fallita ammissione al college per il corso di laurea in Architettura. E sarà proprio l’Empire-Dreamland la balia di vetro e cemento che ospiterà quel dolcissimo e struggente amore clandestino tra Hilary e Stephen, che non può né essere mostrato né detto. E lo cullerà fin dalla nascita nei locali al piano superiore in stato di abbandono, splendidi nella rovina della loro maturità (esattamente come lo è il personaggio di Hilary), con affacci mozzafiato sulla spiaggia sottostante e arredi dismessi d’interni, che ricordano con struggente nostalgia gli anni d’oro del tempo che fu.
E Stephen verrà curato da Hilary come lui avrà fatto all’inizio della loro storia con un colombo dall’ala guastata e poi amorevolmente riparata, avvolgendolo come un tenero gesso nella metà di un vecchio calzino, per far rimarginare e rendere di nuovo robuste le ossa cave delle sue ali, per poi vederlo volare rapido dalla finestra, una volta guarito. Proprio come farà Hilary con Stephen, guarendone le ferite profonde di immigrato indesiderato e sospingendolo là dove natura vuole, verso lidi e approdi forti della stessa gioventù, guardandolo andar via lungo un viale pieno di fronde mentre sotto i suoi piedi scorrono i versi di una struggente poesia scelta da Hilary per l’occasione. Ma chi patisce le ferite dell’esistenza fin dalla sua giovinezza sa distinguere tra regali indimenticabili e semplici presenti, da mettere da parte dopo averli ricevuti. Così è lui, Stephen, allievo operatore accanto a Norman (Toby Jones, un indimenticabile prof. J. E. Littlewood ne “L’Uomo che vide l’Infinito”), il suo delicato tutore, a regalare a lei, nel giorno memorabile del suo compleanno, la proiezione in sala di un film surrealista e romantico, di cui Hilary è la sola spettatrice, sperduta e felice nell’immensa sala a piano terra dell’Empire-Dreamland.
Mendes, come Luigi Pirandello nel suo teatro di “complessità due” (“il Teatro all’interno del Teatro”), fa la stessa identica cosa con il cinema, per cui gli attori si trovano contemporaneamente proiettati in due spazi tridimensionali: uno “interno” e un altro “esterno”. Nel primo sono essi stessi attori; nel secondo osservano se stessi e l’ambientazione che li circonda, guardando il tutto dall’alto: il cinema, il pubblico, il film, la vita fuori e dentro, in cui attraverso le personalità variegate dei clienti entra il mondo di fuori, con le sue malattie mentali; i pregiudizi razzisti; le sue età vecchie e curve, alternate a quelle giovani ed esuberanti con il rock che scorre fresco come il fuoco nelle vene. Una storia di neri e bianchi che si incontrano nella maternità mai realizzata di Hilary e in quella che vive con angoscia il quotidiano del proprio figlio, come la madre di Stephen. Poi, la depressione; l’assistenza sociale; i drammi della solitudine di chi non ha nessuno a casa ad aspettare il suo ritorno; o di chi ha visto per l’ultima volta decenni prima suo figlio bambino, andandosene di casa senza una ragione. Film delicato e imperdibile.
Voto: 9
Maurizio Bonanni