
Diamo a Cesare quel che è di Cesare: Renato de Maria sa fare cinema. Niente di che spellarsi le mani, ma tutto, formalmente, funziona bene. La storia è ben costruita, ha un eccellente punto di partenza ( la vicenda è raccontata nell'arco di 12 ore, dopo che il “sogno” è già fallito, con un senso di plumbea disillusione che permea i ricordi), una fotografia livida ed efficace, una perfetta ricostruzione d'epoca, sia nelle scenografie- attente ai minimi dettagli e prive di quel tono “vintage” che condanna tutti i film ambientati negli anni '70 – che nell'atmosfera, cupa e opprimente. C'è la mano dell'autore, l'asciuttezza del dialogo (tranne un paio di scivoloni di cui diremo), le scene d'azione sono prive del fasullo fascino hollywoodiano a favore della freddezza cronachistica e persino gli interpreti hanno la faccia giusta e i protagonisti sono bravi: soprattutto Riccardo Scamarcio, sebbene non riesca a liberarsi del tutto di quell'aria da bello e dannato, dà una bella interpretazione “implosa”, mentre Giovanna Mezzogiorno fa un ammirevole lavoro di scavo, ma purtroppo non ha ancora imparato a non biascicare.
Il guaio, disse la maestra correggendo il tema, è il contenuto. Non abbiamo mai amato le critiche ideologiche ed ideologicizzate, ma in questo caso non si può sorvolare sull' inaccetabile morale (che, a onor del vero, sembra non fosse nelle intenzioni di de Maria, ma che era inevitabile se si partiva dall'autobiografia di un terrorista): i terroristi erano buoni, carini, innamorati e affezionati a mamma loro. È vero, han fatto qualche morto, ma perché avevano un ideale, povere stelle, mica come quei cattivacci di poliziotti e carabinieri che uccidono i compagni operai per puro divertimento ( detto tra parentesi, dal film sembra che Prima Linea abbia ammazzato solo 4 gatti di cui uno per incidente, in realtà hanno ucciso scientemente ben 23 persone, oltre ad aver fatto un bel po' di feriti). Di più. Forse per convinzione degli autori, forse per evitare l'accusa di apologia di reato, forse perché la cosa è drammaturgicamente valida, fattostà che il protagonista a un certo punto ha gli scrupoli di coscienza (ed eccoci serviti due pistolotti retorici che stonano col tono scarno della pellicola: uno dell'amico che lo sgrida – ciò che fai non è bello, mica come quando, ah i bei tempi!, si faceva scioperi e picchetti e ci scontravamo con la polizia - , l'altro è un monologo in cui esprime i propri dubbi e decide di lasciare la lotta armata). Il doppio problema è: a) fornirgli una coscienza dostoevskiana non serve a criticare il terrorismo, ma a magnificare il nostro eroe, che una didascalia finale ci avvisa essere oggigiorno “impegnato nel volontariato” [sic!]. (Ma va? Fantastico! Questo rimedia tutto. E a chi si rivolge il suo volontariato? A quelli che lui stesso ha gambizzato?); b) tale coscienza dostoevskiana non sembra appartenere al vero Sergio Segio, che nel suo libro ha rievocato con orgogliosa baldanza lo champagne che beveva per festeggiare le uccisioni e che, addirittura, si è arrabbiato col regista perché alla fine del film, in un delirio di santificazione, gli fa dire “mi assumo la responsabilità di quelle morti”, quando invece no, è ancora convinto che la colpa sia tutta dello Stato!
Così sembra quasi che la forma vada da una parte (il senso di fallimento), e il messaggio cifrato rivolto ai giovani dall'altra (allora c'erano degli ideali, ora si sogna solo di partecipare al Grande Fratello- con quel che ne consegue). Senza contare che gli autori parlano un po' a sproposito dicendo che in Italia quello del terrorismo è ancora un argomento tabù: in realtà, ci sembra proprio che il cinema “impegnato” italiano non faccia altro che raccontarci storie nostalgiche sugli anni di piombo (!), e la cosa francamente comincia un po' ad annoiarci.
Voto? Nessuno, Non Pervenuto. Perché la distanza tra scorza e polpa è tale che un voto “di media” sarebbe, in ogni caso, ingiusto.
Voto: N/A
Elena Aguzzi

Non sono assolutamente d’accordo con la recensione pubblicata qui sopra. Non per quanto riguarda lo stile e la bella regia di Renato De Maria: su qui concordo. Ma a questa corrisponde il contenuto. Con uno stile asciutto, senza retorica, senza motivi epici ci parla di un periodo della nostra storia ben poco conosciuto dal pubblico giovane, perché di Prima Linea non se ne è mai parlato e nemmeno si è raccontato al cinema dall’interno: i pochi film italiani su quel periodo si riferiscono al rapimento Moro. Il protagonista, Sergio Segio, appare subito come uno sconfitto, non tanto perché condannato e incarcerato, ma perché lui stesso capisce che è stato tutto sbagliato. C’era un ideale – e già questo può stupire in un’epoca in cui l’ideale più diffuso tra i giovani sembra essere quello di diventare famosi senza saper fare niente –, un ideale di democrazia: migliorare la vita della gente che lavorava e che era sfruttata, quello che allora si chiamava proletariato. Ma quell’ideale venne perseguito con metodi sempre più aberranti. L’idea di distruggere tutto per ricostruire tutto portò all’aberrazione. Con il risultato che quella stessa gente che all’inizio poteva essere d’accordo si dissociò completamente. Ben lo dice l’amico Bruno a Segio: e questo, per lui e per Prima Linea, significa sconfitta. E questa è storia, come è storia la grande folla ai funerale di Alessandrini ucciso da Segio, di cui sono inseriti i filmati originali. Era quella che allora si chiamava la maggioranza silenziosa.
Secondo me, Sergio Segio non emerge mai come eroe, e chiaramente sono indicati i 23 assassinati da Prima Linea. La storia non è certo tradita, ma portata alla luce. Bravo de Maria per avercela raccontata, e per come l'ha raccontata.
Voto: 7
Valeria Prina