
Se è vero che la formula vincente per un film, per dirla con l’amato Walt Disney, è regalare un sorriso e strappare una lacrima allo spettatore, è pur vero che bisognerebbe indagare sulle cause del sollazzo e i motivi del singhiozzo. Perché una pellicola come “Eat pray love”, di fatto, i muscoli facciali ce li ha stimolati pure, ma non esattamente come la Sony Pictures avrebbe voluto. Per un bestseller che ha convinto oltre 8 milioni di fan, la casa di produzione americana sperava di superare i 50mln di dollari in meno di due settimane; mission fallita, “Eat Pray Love” è attualmente terzo al botteghino, dietro agli “Expendables” di Stallone&Co. e ai gotici parodistici di “Vampires suck”. La Sony ha provato a renderlo appetibile per un target esteso, non solo trentenni single, ma ragazzine e over40, attraverso pubblicità su MTV ed Amazon ed un discreto lavoro di casting e sceneggiatura. La trasposizione ha reso (ancora) più commerciale Gilbert, ma ne ha banalizzato alcuni passaggi. Esempio. Se nel libro l’eroina, prima di lasciare il marito e partire alla fantomatica ricerca di sé, percepisce un pur graduale malessere esistenziale, nel film la decisione è pressoché improvvisa, univoca ed inappellabile. Roberts-Gilbert risulta l’emblema dell’egoismo, o chissà, gli sceneggiatori –Ryan Murphy e Jennifer Salt, insieme già per il tf Nip/Tuck- hanno frainteso il senso del matrimonio. Magari altri avrebbero cercato di salvare una relazione piuttosto che ascoltare il consiglio notturno dispensato da un water e invece, se il water ti comanda di partire, tu, nel cuore della notte, ex abrupto, lasci tuo marito (Billy Crudup!) e parti per Roma. Ma prima trovi il tempo per lanciarti in un flirt scacciapensieri con James Franco.
Di qui, l’impianto narrativo del film rispetta l’originale, molto lineare: già Gilbert non mostrava simpatia per il multitasking, preferendo un trittico con titoli, ambientazioni e personaggi autonomi. Eat sta per l’Italia; Pray sta per l’India e Love per l’Indonesia. Semplice, schematico, rassicurante, con prevedibile happy ending.
Si parte con Liz, giornalista sposata in cerca di maternità che, al pari di Dante, nel mezzo del cammin della su’ vita, perde la direzione e… ripara in Italia. Location degne Roma e Napoli, dove Liz scopre il gusto del mangiare e guadagna dieci chili (poco visibili perché la Roberts è la Roberts, assioma). Seconda tappa, l’India, dove la newyorkese capisce come si prega; terza ed ultima stazione, l’Indonesia, dove la trentenne scopre l’amore (Javier Bardem), sotto la guida spirituale di Ketut Liyer (Hadi Subiyanto). Tutto vero, anche il lieto fine: Gilbert e consorte brasiliano vivono nel New Jersey.
Probabilmente la parte più riuscita è quella centrale. È scritta meglio, i dialoghi scorrono e lo spleen generale è incarnato da Richard Jenkis nei panni del texano Richard, disorientato dal fresco divorzio ma elargitore del messaggio chiave “Devi imparare a selezionare i pensieri ogni giorno come fai coi vestiti o non troverai mai la pace, né qui né altrove”.
Buona la fotografia di Robert Richardson, anche se ci saremmo aspettati scene più cupe, a sottolineare il travaglio interiore. Idem per la costruzione del plot e la regia: sebbene qualche flashback e dei cortocircuiti spaziotemporali ci abbiano ridestati, il film è nel complesso troppo candido e piatto per rappresentare una catarsi. In fondo un viaggio, soprattutto quando è intimo, veicola sofferenza. Invece al cinema si è riso. Soprattutto nella prima tranche, con la Roberts che cerca di parlare italiano, i jeans che non si chiudono per i chili presi e la carrellata di luoghi comuni sulla nostra Italietta. “Riso amaro” per i compaesani che comunicano a gesti, l’invadenza delle mamme e l’inneggiare al dolce far niente. Da notare che il libro proseguiva con cartoline sulla Sicilia e la mafia, la povertà postbellica e la Chiesa corrotta. Stereotipi fortunatamente evitati ad un film dalla portata semititanica, oltre due ore di pellicola. Sui set italiani, si conferma Luca Argentero; presenti anche Andrea Di Stefano e Giuseppe Gandini (dalle psicologie nebulose rispetto al testo scritto) e un tifoso gagliardo e verace, Remo Remotti.
Peccato per una omissione dell’originale di Gilbert. La scrittrice faceva dire all’amica psicologa americana che gli italiani, a differenza degli americani, sanno manifestare i propri sentimenti e amano e rispettano le loro famiglie. “Non credere a quanto leggi sui giornali, Liz. Questo Paese funziona”. Peccato nel film non lo si dica. Peccato davvero.
Pubblicato su Oggi 7 il 28-08-10
Voto: 5,5
Maria Vittoria Solomita