Il Cigno Nero

13/09/2010

di Darren Aronofsky
con: Natalie Portman, Vincent Cassell, Barbara Hershey

In un vecchio film di Roman Polansky, “Repulsion”, la protagonista aveva una tale paura del sesso da diventare una nevrotica allucinata al limite della schizofrenia e dalle pericolose tendenze omicide. Cinquant'anni dopo, Darren Aronowsky ci presenta la stessa storia, aggiungendoci “Il lago dei cigni”, “Scarpette rosse” e la certo non nuovissima idea che la perfezione artistica non si raggiunge con la tecnica ma col “sentire dentro di sé” il personaggio.
Peccato che il suo film sia perfetto tecnicamente e privo di emozione. Quindi, nella stessa logica proclamata per due ore, un fallimento.
Protagonista bicefala, storia di doppi e di specchi, anche il film soffre dunque di questo profondo dualismo tra forma e contenuto, con un aspetto formale da levarsi il cappello (ambienti, atmosfere inquietanti quasi da horror anni '40, suspense, riprese di ballo, effetti digitali, missaggio delle musiche e, soprattutto, un magistrale uso del colore, con le tonalità che riprendono i passaggi emozionali della ballerina Nina: rosa per l'innocenza, bianco e nero per il confronto bene/male, verde e rosso per l'attrazione sessuale e la passione...), ma una trama tanto ambiziosa e intellettualoide quanto esile e “telefonata”, priva di interesse e novità. E sapere dalla prima inquadratura come andrà a finire la storia non giova certo all'aspetto thriller della vicenda....
Restano, di veramente valido, il lavoro sul corpo della protagonista, che rimanda all'elemento fisico di “The Wrestler”(intendiamo il senso di fatica, i dettagli fisici della preparazione atletica di chi balla e la sua abnegazione alienante al lavoro), e l'interpretazione “totale” di Natalie Portman, sulle cui spalle (o sui suoi piedi...) si regge tutto il film: come Mickey Rourke nel citato “The Wrestler” è lei la ragione non solo per vedere la pellicola ma per cui questa è stata realizzata. Tanto che a Venezia vederla sorridente in sala è stato un po' uno choc: allora si può essere perfetti anche senza soccombere alla sofferenza?

Voto: 6,5

Elena Aguzzi

Guardando Il Cigno Nero, ultima fatica dello stimabile Darren Aronofsky non si può che segnare una nota di condivisione rispetto alla decisione dell’Academy di decretare Natalie Portman quale miglior attrice, consegnandole la celeberrima e agognata statuetta. Certo il regista avrebbe potuto lasciarsi andare ad una trama maggiormente ponderata, meno entropica e meno ordinaria in alcuni tratti. Sembra che Aronofsky abbia voluto operare una sorta di sintesi delle sue precedenti pellicole, portando il colore al primo (e apprezzabile) P greco il teorema del delirio (1998), dove ugualmente si osserva l’ossessione della ricerca di una perfezione che si abbandona nell’istante della morte (o tentata tale); aggiungendo successivamente la visione immaginifica di Requiem for a dream (2000), abitata da una dipendenza malata e irrimediabile. Ma ne Il Cigno Nero non si evince, come qualcuno potrebbe obiettare a favore del regista, la riconoscibilità dell’autore, bensì il suo probabile (benché confutabile) tentativo di auto riciclarsi; tanto più che il precedente The Wrestler (2008) aveva dato alla carriera di Aronofsky quel tocco di originalità e persuasione di apprezzamento che altrimenti non vi si trova. Già dai primi fotogrammi si evince, sarebbe ingeneroso negarlo, una tecnica registica visibilmente meditata, coadiuvata da una fotografia impeccabile che si amalgama ad una colonna sonora altisonante, che segue il linguaggio delle immagini rese fluide e accattivanti da un montaggio di visibile apprezzamento. A fare difetto, tuttavia, sono i fonemi, quei dialoghi fin troppo semplici e leziosi rispetto alla cruda follia delle immagini portate sul grande schermo. Un merito tuttavia gli si deve riconoscere: quello di aver infuso nello spettatore tutta quell’ansia schizofrenica che Aronofsky ossessivamente cerca di rappresentare. La cinepresa sempre vicina alla somatica dei protagonisti, quella scelta di usare con particolare frequenza la telecamera a mano, lasciano intendere che il regista abbia analizzato e calibrato con sufficiente attenzione l’impronta psicologica da dare ai personaggi. Primi piani frequenti sulla protagonista Nina (Natalie Portman) che prefigurano la pazzia generata dall’ansia della perfezione; campi e contro campi frequenti rispetto all’immagine sullo schermo di Thomas Leroy (interpretato da un non proprio eccellente Vincent Cassel) e fissità dell’immagine sulla ugualmente accattivante nella recitazione Mila Kunis (nel ruolo di Lilly) che rappresenta, al contrario, l’ordinaria padronanza della scena, priva di incertezze e/o instabili apprensioni artistico - sociali. L’intreccio, difatti, si risolve nell’ansia interpretativa di Nina, una ballerina newyorkese alla ricerca del ruolo di prima ballerina per la rivisitazione de Il Lago dei Cigni,  che dovrà portarla ad interpretare il cigno bianco e il cigno nero, ruolo che la mansueta indole della protagonista stenta a vestire. Farcita della rivalità con Lilly (ballerina imperfetta ma maggiormente fluida nell’interpretazione) e con la madre, ossessiva quanto Nina con se stessa, la trama si dispiega in un finale di morte per raggiungere quella perfezione che dà realistica “vita” all’opera messa in scena. Il Cigno Nero, dunque, appare toccante, ma non prodigioso come ci si sarebbe aspettati.

Voto: 6

Felicia Buonomo