Daguerrotype
22/12/2017
di Kurosawa Kiyoshi
con: Tahar Rahim , Constance Rousseau, Olivier Gourmet, Malik Zidi , Mathieu Amalric , Valerie Sibilia, Jacques Collard
Stèphane è un ex fotografo di moda che vive isolato dal mondo nella sua villa insieme a sua figlia. Jean viene assunto per aiutarlo nella realizzazione della sua ultima passione: i dagherrotipi. Da questo incontro emergeranno non solo dei bellissimi lavori, ma anche il ricordo di un passato ormai lontano, anche se non del tutto sepolto.
Kurosawa Kiyoshi, sia pure all’interno di una buona esplorazione dei generi, non si è mai molto allontanato dalla sua prima vera passione: i fantasmi. In questo suo nuovo lavoro, il primo in coproduzione internazionale e girato fuori dal Giappone, ci regala una commistione delle sue vecchie ossessioni combinata con antiche immagini prese dalla letteratura gotica e dal cinema del passato.
Non è difficile ravvisare l’ombra di Edgar Allan Poe e del suo celeberrimo “Il Ritratto ovale” nel lavoro di Stèphane, ossessionato dal ricordo della moglie morta e per questo deciso a riportare in vita la sua immagine tramite uno strumento ormai obsoleto, una citazione che si fa omaggio tramite l’espressione del dolore per la perdita e dell’immagine femminile proiettata e inseguita in tutta una vita di espressione artistica.
Jean viene casualmente introdotto nell’universo del fotografo e rimane colpito dalla sua giovane modella, figlia di lui e immagine speculare della madre morta. La tragedia, mai del tutto seppellita, aleggia in tutto il lavoro dell’uomo, mentre la combinazione della passione del giovane con il desiderio di fuga di Marie funge da silenzioso catalizzatore dell’epilogo che non può che essere funesto.
Un onesto Olivier Gourmet è Stèphane, padre dolente e potenziale assassino, mentre il giovane Jean è Tahar Rahim (Il Profeta, J. Audiard 2009) che incarna alla perfezione la negazione della propria stessa natura a discapito della realtà, e che verrà attratto indissolubilmente dall’eterea Marie, una Constance Rousseau dalla calma sovrannaturale, che contiene in sé tutta la passività della morte e la violenza dell’imminente fantasma.
La regia, insolitamente meno complessa delle precedenti prove del regista, sottolinea i molteplici livelli di cui il racconto si fa portatore. Con pochi movimenti di macchina, quelli per cui Kurosawa è giustamente famoso, si suggerisce un dramma che si svolge tutto fuori campo. L’uso dello spazio è l’unica firma di cui Kurosawa Kiyoshi ha bisogno per rendere indimenticabili le sue rappresentazioni, la combinazione tra l’ascesa e la caduta dei corpi e il fluire in orizzontale delle creature dell’Oltre rappresenta al meglio tutto quello che non si può raccontare, se non per immagini e senza mai spiegare l’inspiegabile. Le immagini del passato invadono con la loro innaturale persistenza quelle del presente, come Lady Rowena di Poe veniva invasa dal fantasma di Ligeia, e rimpiazzandole ci raccontano di un dolore mai sopito e di una colpa espiata troppo a lungo.
Mentre assistiamo al riproporsi di un dramma antico che si fa struttura portante di quello che si svolge davanti ai nostri occhi, non possiamo che accettare, con Stèphane prima e con Jean poi, che quello che è vivo deve per forza fluire e che solo le cose morte restano sempre uguali, anche se questo è tutto quel che rimane di un amore e del desiderio di trascenderne la morte stessa.
Voto: 7
Anna Maria Pelella