Chiunque si interfacci almeno una volta al cinema di Gaspar Noé non può provare indifferenza. Il profondo sentimento di stima o di rigetto che le pellicole del francese generano è frutto di una ricerca sperimentale e concettuale cinematografica che non si arresta mai. Che sia la cupa violenza malata di “Seul contre Tous” o di “Irréversible”; l’esplicito contenuto sessuale e corporeo di “Love”; la psichedelia turbolenta di “Enter the Void” o “Climax”, l’approccio all’arte cinematografica di Noé si prefigura sempre l’obiettivo di sconvolgerne le regole, accostando un ribaltamento formale ed estetico – sempre diverso in ogni opera – a un contenuto che indaghi nel torbido dell’esistenza. Il cinema di Noé si prende i suoi tempi, lavora secondo stilemi poco intuitivi, spezza a più riprese il ritmo della narrazione per scomodare l’occhio del pubblico.
In “Vortex” questa scelta appare evidente quasi da subito. Una coppia anziana (Dario Argento, sorprendentemente credibile, e Françoise Lebrun) vive con il demone dell’Alzheimer di lei, che peggiora ogni giorno e rende la loro convivenza molto più problematica. Dopo una prima idilliaca scena in cui la coppia mangia sul balcone brindando alla vita come sogno, veniamo immediatamente immersi nella cruda realtà del film. Lo schermo viene letteralmente separato in due da una linea nera che viaggia a metà tra i due vecchi amanti, i quali divengono definitivamente due individualità separate e incomunicabili, legate solo dal sottile filo del sentimento. La moglie si sveglia con sguardo preoccupato e vaga senza meta per casa. Da qui, la quasi totalità del film si compone di due inquadrature parallele, che seguono meticolosamente i personaggi nella loro vecchiaia manifesta. Allo stesso modo di due linee parallele, solo in determinate circostanze possono toccarsi. Questa prepotente autorialità di Noé è sempre stata anche il suo maggiore difetto. Si percepisce la presenza del regista che piega l’immagine al proprio volere, quasi come se l’autore fosse maggiormente interessato a mostrarci i suoi vezzi artistici. Questo sacrifica la varietà delle inquadrature nel film. Un altro punto quasi stereotipico del suo lavoro è l’ossessiva presenza di rimandi al cinema e ai film che l’autore ama. In “Vortex” i muri sono tappezzati da locandine e Dario Argento interpreta un critico cinematografico intento a scrivere un saggio sul cinema e sui sogni.
Impossibile non vedere nella storia una presenza importante di “Amour” di Michael Haneke, che tratta lo stesso tema con quasi le stesse dinamiche (seppur con un gusto e un’estetica totalmente diversi). È possibile anche fare riferimento a “The Father”, di Florian Zeller, dove però il punto di vista era strettamente legato a quello di Anthony Hopkins. Qui, invece, lo spettatore è un’entità divisa in due che segue da vicino i protagonisti all’unisono: noi sappiamo cosa accade a ognuno dei due personaggi, loro no, e spesso non possono intervenire quando necessario. Di questo ne giova molto la tensione. A differire da questi due precedenti film è la fotografia di Benoît Debie, che gioca maggiormente con il buio e il calore degli ambienti angusti. Consci del fatto che Noé improvvisa quasi tutti i suoi dialoghi sul set, ci si stupisce di fronte alla capacità di commuovere attraverso la fragilità, qualcosa che nella filmografia del regista nato a Buenos Aires è assolutamente inconsueta.
Niente più droghe, sesso o violenza estrema, quindi: lo choc che “Vortex” regala è quello di un intimo e completo amore che è messo alla prova dalla vita stessa, che con la sua mancanza di scrupoli fa passare il tempo, deteriorando il corpo e la mente. Lo scandalo visivo è la vita stessa, l’imperdonabile inganno della mortalità e la decadenza della vecchiaia. Il rapporto tra familiari; gli affetti; i segreti e la mancanza di comunicazione sono lo sfondo delle sofferenze di cui gli amanti si fanno carico, anche a costo di enormi sacrifici. Il film è però ben lungi dal risultare accomodante o poco realistico. Il personaggio di Dario Argento si intrattiene in una relazione extraconiugale, nella quale sembra riversare i propri desideri nascosti. Questo però non intacca l’affetto che possiamo provare verso il profondissimo sentimento che intercorre tra i due personaggi principali dell’opera, anche se occorre scrollarsi di dosso un po’ di moralismo per riuscire a comprenderlo. Argento cavalca un personaggio sfuggente, che ha difficoltà a relazionarsi con la realtà e con il passato (non del tutto passato) di tossicodipendenza del figlio Stéphane (Alex Lutz), terzo elemento che cerca di mettere ordine nella mente confusa del padre, convinto di essere in grado di gestire tutto da solo. La sua passione onnipresente per l’arte – che non si concretizza mai, ma di cui l’uomo parla continuamente – è il grido d’aiuto dell’essere umano che si rifugia nel sogno e nella fantasia per esorcizzare una realtà spiacevole. Non è un caso che il personaggio di Argento sia tremendamente attaccato ai suoi memorabilia. Li conserva e custodisce, rifiuta di abbandonarli a ogni costo, in quanto questo significherebbe togliere dignità alla propria storia e al proprio essere. A manovrare le fila c’è sempre la morte, ossessivo cruccio dell’umanità vista attraverso il laico pragmatismo del regista.
“Vortex” è il film che non ti aspetti e che probabilmente non è per tutti. Le immagini si prendono il loro tempo, viaggiano lentamente attraverso le stanze di una casa che ricorda più un limbo che un focolare. La parte finale è ugualmente imprevista, e aggiunge tematiche e sfumature che, ahimè, non è possibile spiegare in queste righe poiché anticiperebbero elementi fondamentali della storia.
Voto: 8
Edoardo Cappelli