Princess Blade

26/11/2008

di Shinsuke Sato
con: Yumiko Shaku, Takashi Tsukamoto, Yoichi Numata

“Non c’è più bisogno di ideali. Quando la monarchia cadde le nostre spade andarono in frantumi. E quell’odore terribile, lo ricordi? Non proveniva dai cadaveri, ma da noi.”

Fascino, misticismo, azione, dramma. Ovvero: tutto quello che l’ America, in un film di arti marziali, non saprebbe mai darci. Per fortuna ci pensa il Giappone a colmare le pesanti lacune che il Nuovo Mondo ha imposto ad un genere di certo non colto, ma non per questo necessariamente idiota. Due nomi  suonano come una garanzia: Shinsuke Sato, regista-genio di pellicole hi-tech e Kenji Kawai, grandioso musicista già acclamatissimo per film come “Ghost in the Shell” e “Avalon” di Mamoru Oshii (molti critici giudicano la colonna sonora di quest’ultimo immensa, indimenticabile, ed hanno ragione). E poi la giovane Yumiko Shaku, nuova ed atletica combact-star, che non concede nemmeno una delle difficilissime sequenze marziali alle controfigure. Takashi Tsukamoto (Battle Royale) e Yoichi Numata (Ring) completano il quadro degli attori noti, ma non dimentichiamoci il visionario Donnie Yen, coreografo di “Blade 2”. La storia è tratta dal popolare, omonimo manga di Kazuo Koike, oggetto di altre, ma da noi non distribuite, rielaborazioni cinematografiche ed è in grado di offrirci un suggestivo Giappone storicamente e politicamente decontestualizzato, nel quale, alla caduta della monarchia, tentano di instaurarsi regimi di potere in conflitto. Il clan dei Takemikazuchi, temuta gilda di assassini ma un tempo guardia d’elite della corona, si ritrova senza nulla da servire, e vende le incredibili abilità dei propri guerrieri ai migliori offerenti. La loro è un’esistenza senza scopo, senza gioia e senza dolore. Combattono, ma perché la natura di cui sono parte glielo impone. Yuki è la più giovane, e la gilda le nasconde un segreto. Quando la spietata combattente decide di indagare sul proprio passato, i Takemikazuchi, rigidamente ancorati alle antiche glorie e ligi ad un deposto imperativo, non glielo perdonano, ed ella è così costretta alla fuga. Incontra per caso un informatico schivo e taciturno, Takashi, che nella sua debolezza inizia a scalfire la gabbia di ghiaccio attorno ai sentimenti di Yuki. Takashi, tuttavia, è in contatto con una setta terroristica dedita a stravolgere il difficile equilibrio sociale raggiunto, ed anche lui, che rifiuta di versare il sangue di innocenti, diventa presto una preda. La narrazione corre verso due obiettivi: uno scopo da attribuire all’esistenza (il contatto di Takashi parla di ideali, ma non sa quali siano veramente. Esegue ordini e basta), e la ricerca sempre più ardua della felicità. E se per l’informatico la metamorfosi è semplice (ma non per molto), per Yuki comporta invece una terza via: la scoperta della propria origine attraverso il dolore. Proprio lei, addestrata a non versare lacrime e a non sorridere mai, sarà chiamata alla prova più dura: sperimentare sentimenti che non siano legati al passato. Il capo della gilda, tuttavia, non può concederglielo. La gilda deve soffrire, e la sofferenza è l’ unica dimensione che li vincola agli antichi padroni.
Atmosfere decadenti e senso del destino, epiche battaglie e delicatezze introspettive. Al film di Sato sembra non mancare proprio nulla, e noi ci sentiamo in dovere di sottolineare certe finezze di contorno, alcuni sottili scambi di idee ed emozioni espresse con mirabile fantasia, all’interno di quell’esistenzialismo profondo e rarefatto che solo la cultura Giapponese è in grado di offrirci.

Voto: 8

Carlo Baroni