Giacomo Cimini (Red Riding Hood, 2003) dirige quello che senza dubbio possiamo considerare una boccata d’aria fresca. Il cinema italiano è da anni prigioniero di stereotipi che lo vogliono poco interessante e per nulla stimolante. Spesso, il grande pubblico fugge dalle pellicole nostrane, identificando l’industria tricolore con la forzata proposizione di commedie triviali fatte con lo stampino. I cinepanettoni, per intenderci. Se questo poteva essere vero fino a qualche anno fa, è indubbio che quel tipo di film abbia recentemente perso molto appeal. Ma non è questo ciò che fossilizza il nostro cinema. Se c’è qualcosa che lo immobilizza, è quella serie interminabile di film che trattano delle paranoie di quarantenni borghesi che rimpiangono gli anni della loro giovinezza; di disoccupazione e raccomandazione dipinta in salsa di superficialità; commedie e film drammatici senza alcuna spinta creativa. Per questo, un lavoro come Il Talento del Calabrone (2020) è più che benvenuto.
Negli ultimi anni stiamo respirando progetti e lavori che hanno fatto tornare il genere nelle nostre sale. Mainetti ha aperto la pista con Lo Chiamavano Jeeg Robot (2015) e si ripeterà con Freaks Out (coming soon post-Covid), Garrone si è da tempo affermato re indiscusso del fantasy, Rovere gli va dietro col suo stile, i fratelli Manetti stanno rispolverando il musical e la commedia popolare, Daniele Misischia ci ha riportato un horror di stampo classico con The End? L’Inferno Fuori (2017). Questo film si insinua perfettamente come thriller, utilizzando il topos narrativo dell’antagonista introvabile che tiene tutti sotto scacco attraverso la minaccia di compiere una strage. Steph (Lorenzo Richelmy) è un affermato e popolarissimo dj radiofonico che conduce un programma notturno a Milano. Durante una trasmissione, riceve una telefonata da parte di un certo Carlo (Sergio Castellitto) che prende il controllo del programma minacciando di farsi saltare in aria, uccidendo centinaia di persone. Le negoziazioni verranno portate avanti dal commissario Rosa Amedei (Anna Foglietta).
Il film ha alcune componenti positive. Colpisce la fluidità della storia che risulta sempre coinvolgente, forte del fatto che lo spettatore non può sapere cosa succederà, né nei prossimi minuti, né nell’immediato. Per una produzione con un budget non eccelso, è importante riuscire a ridurre i costi, e le ambientazioni statiche sono sempre state un’ottima soluzione. In questo contesto, sono anche funzionali. Il film risulta claustrofobico, cupo, ottimamente relazionato sia alla tematica trattata, sia all’atmosfera che si vuole creare. La stazione radio e la macchina da cui Carlo comunica con Steph fanno mancare l’aria. Non a caso, il film è pieno di campi ristretti e primi piani. Complice di questo, una Milano notturna fatta di luci al neon e oscurità (nota di merito alla fotografia di Maurizio Calvesi). Incredibilmente potente è l’interpretazione di Sergio Castellitto, certamente il punto di forza dell’intera storia. Il dolore dell’uomo traspare perfettamente, così come la sua compostezza intellettuale e la follia che deriva dalla sua storia personale. Questi aspetti formali, dunque, sono efficacemente a servizio del tema del film, che sembra in parte ricalcare quello del recente Joker di Todd Phillips (2019). Finché una società completamente distratta da se stessa si ostina a non ascoltare coloro che soffrono e che gridano il proprio dolore, prima o poi dovrà affrontare il ritorno dei disgraziati che chiederanno il conto. Una società impegnata unicamente a bearsi allo specchio e a calpestare coloro che rimangono indietro (qui perfettamente personificata dal dj Steph). Questo perché la violenza e i soprusi hanno sempre degli strascichi a lungo termine. Una malaugurata eventualità va sempre tenuta in conto: quel ritorno di fiamma dei sofferenti potrebbe essere violento ed estremamente pericoloso per tutti. Insieme a questo, una riflessione su Milano (e, per estensione, sugli altri agglomerati urbani) come intersezione infinita di vite ed esperienze nella quale molti si perdono, non essendo più in grado di trovare un’autentica bellezza della vita in compagnia degli altri (non vediamo più le stelle perché siamo ostacolati dall’inquinamento luminoso).
Purtroppo, gli aspetti interessanti si concludono qui e sono costretti a confrontarsi con delle caratteristiche strutturali che fanno scivolare il film nella semi-mediocrità. Primo fra tutti, la sceneggiatura. La pellicola non soffre di particolari illogicità o buchi di trama. Anzi, attraverso alcune trovate interessanti, alla conclusione del cerchio, riesce a sistemare delle apparenti storture che possono emergere durante la visione. Il problema sta semmai in alcuni dettagli di messa in scena e, soprattutto, nei dialoghi. Le battute sono esageratamente pompose, adatte a una parte descrittiva di un romanzo, piuttosto che a una recitazione cinematografica. Le frasi sono ricamate, estremamente artificiali e artificiose. Viene il sospetto che nella sua ideazione, il film abbia voluto mostrare di essere qualcosa “di più”, inciampando inevitabilmente su se stesso. A tal proposito, risulta estremamente deludente la prestazione di Anna Foglietta, costantemente in “overacting”, ovvero che enfatizza sovrabbondantemente le battute, la mimica e la gestualità. Questo è proprio anche di altri attori coinvolti nell’opera, ma la Foglietta salta maggiormente all’occhio, in quanto svolge il ruolo di uno dei personaggi principali. Inoltre, stiamo pur sempre parlando di una delle attrici di spicco dell’immaginario contemporaneo. A questo si aggiunge un modo poco plausibile di delineare i talenti e le conoscenze dei personaggi, che escono fuori dai binari del realismo del ruolo che ricoprono. Anche qui, eccessiva autostima o voglia esagerata di distaccarsi dalla media?
Il Talento del Calabrone si rivela quindi poco credibile nello svolgimento delle sue vicende. Una stesura barocca della sinossi, una caratterizzazione improbabile dei personaggi, contro una riuscita costruzione della tensione all’interno di una tematica interessante e trattata in modo innovativo. Purtroppo, non basta una buona tematica per fare un buon film. Sono centinaia i lavori impegnati socialmente, che finiscono però per essere dimenticati. Un plauso va, tuttavia, al tentativo di spolverare un genere che in Italia manca da molto tempo.
Voto: 5,5
Edoardo Cappelli