Soul

06/01/2021

di Pete Docter
con: Jamie Foxx, Tina Fey

Pete Docter è direttore creativo della Pixar sin dal 2018, e il suo nome figura nella produzione di molti dei capolavori della casa d’animazione californiana. Docter è stato sceneggiatore in “Toy Story” (1995), “Monsters and Co.” (2001), “Wall-E” (2008) e “Inside Out” (2015) – fra gli altri –, prima di prendere in mano la regia di questo “Soul” (esclusiva Disney+ per via del traumatico arresto delle sale cinematografiche a causa della pandemia). Ciò che lega primariamente queste opere è senz’altro l’efficacia dell’ambientazione, che va ad affondare gli artigli nella filosofia stessa promossa dalla Pixar nel corso degli anni. Un miscuglio di venture capitalism e di anarchia new age, dove degli hippy creativi anti-establishment realizzano il sogno americano, altrimenti impossibile da raggiungere nella tradizionale società capitalista. Tutte queste composizioni impostano la storia in un ambiente che sia riconoscibile e immediato. I protagonisti si dimenano in rapporti sociali gerarchizzati e luoghi di lavoro che rasentano il fordismo più spinto. Tutto è meccanizzato e burocraticamente registrato, anche l’Aldilà. In “Soul”, Joe Gardner (voce di Jamie Foxx) è un insegnante di musica presso una scuola media che deve confrontarsi con un’esistenza che non gli ha mai permesso di vivere della propria arte o di esprimere a pieno la sua creatività. Proprio quando l’occasione della vita bussa alla sua porta, muore cadendo in un tombino. La sua anima vagherà quindi in un mondo etereo, tentando in tutti i modi di tornare nel proprio corpo per poter realizzare il suo sogno. L’Aldilà è diviso in due parti: la zona dove le anime morte passano a miglior vita, e l’area in cui dei tutori aiutano gli spiriti che ancora devono nascere a sviluppare le proprie personalità. Joe sarebbe destinato alla prima, ma riesce rocambolescamente a fuggire e a ritrovarsi nella seconda. Scambiato per un mentore dagli amministratori, gli viene affidata/o 22, uno spirito inquieto che ha sempre rifiutato di voler completare il percorso necessario per nascere.
Quello che colpisce immediatamente è, per l’appunto, la costruzione del mondo delle anime in cui le parti più importanti del film sono ambientate. Sebbene la Pixar ci abbia abituato da sempre a un comparto tecnico rivoluzionario ed elevatissimo (ricordiamo che “Toy Story” fu il primo lungometraggio in animazione digitale a tre dimensioni della storia), risulta ancora più efficiente nella messa in scena di una realtà ridotta ai minimi essenziali. I personaggi e i luoghi dell’aldilà sembrano realizzati da Bruno Bozzetto, in un contesto di minimalismo delle forme che esprime perfettamente la distinzione tra una società terrestre complicata e decadente e il mondo iperuranico dove tutto è preciso e calcolato. Gli operatori di questo mondo (divinità?) non sono altro che delle energie dei vari multiversi, le quali si manifestano sotto forme comprensibili al cervello umano. Linee semplici e immediate che svolgono un lavoro di contabilità e amministrazione (che nulla ha a che vedere con il candore sopracitato). Ancora più suggestiva la costruzione della “bolla”, una dimensione in cui le anime si separano temporaneamente dal mondo reale. Una zona mistica a cui gli esseri umani accedono quando fanno ciò che amano, e si perdono nell’ebbrezza della loro passione. In questo luogo vagano anime appesantite e tristi, ancorate al suolo: coloro che hanno trasformato le loro passioni in ossessioni e che non riescono più a tornare nel mondo reale.

Il film è strutturalmente solidissimo. La colonna sonora interamente jazz di Jon Batiste nelle scene sulla Terra si amalgama alle composizioni di Trent Reznor e Atticus Ross per gli spezzoni celestiali, pregne invece di synth e atmosfere ambient. Il jazz è centrale, non solo perché il protagonista sogna di essere un musicista, ma perché offre il fianco a degli elementi visivi magici e onirici propri di quel tipo di melodie. Allo stesso modo, la sceneggiatura a sei mani, scritta da Docter con Kemp Powers e Mike Jones, crea personaggi secondari di grande spessore, marchio di fabbrica delle pellicole Pixar, e segue la classica struttura dei tre atti narrativi di introduzione, sviluppo e risoluzione. Si nota la mancanza di un vero e proprio cattivo, così come abbiamo visto in “Inside Out”, “Il Viaggio di Arlo”, “Monsters University” o “Toy Story 4”. Una tendenza della Pixar contemporanea, che preferisce porre l’accento sul modo di reagire alle avversità dell’esistenza. Il villain di sorta è più identificabile nei dispiaceri inevitabili della vita, più che in un antagonista fatto e finito. Sotto un altro punto di vista, questo può essere un segno di grande maturità. La Pixar continua a mantenere la sua facciata di ideatrice di film d’animazione per l’infanzia, ma si sta sempre di più rivolgendo agli adulti e alla popolazione mondiale in generale (probabilmente conscia che la generazione di coloro che hanno vissuto i suoi lavori sin dall’inizio è ormai cresciuta). “Soul” assorbe interamente tutta questa maturità, oscillando costantemente tra dramma, suspense e commedia. Affronta tematiche importanti quali il lutto, il passaggio del tempo e l’apprezzamento del presente, senza cadere in facili didascalie. La messa in scena non è mai scontata, e alcune citazioni che danno il via a situazioni comiche non possono certo essere colte da chiunque si trovi sotto la soglia dei dodici anni. Il film si staglia contro varie retoriche proprie dell’epoca contemporanea, come l’idea di trovare il nostro posto nel mondo; la necessità di comprendere quale sia il proprio scopo; svelare al mondo il motivo per cui si è nati. Innesti culturali che lasciano intendere che la nostra esistenza possa essere valida unicamente nel momento in cui completiamo uno specifico compito, una mansione che ci fornisce una sorta di permesso di soggiorno sul pianeta, senza cui il nostro vagare sulla Terra non avrebbe valore. L’opera di Docter rovescia queste credenze, sottolineando l’importanza dei singoli momenti e degli attimi di piacere, delle relazioni che intessiamo e della possibilità di cambiare strada e progetti quando vogliamo. Far diventare il nostro corpo una mera estensione delle nostre ambizioni può essere estremamente dannoso.
In questo senso, il protagonista guadagnerà molto dalla vicinanza con l’anima numero 22 (Tina Fey). 22 incarna le angosce della generazione odierna, così inondata di negatività e mancanza di prospettiva da non riuscire a trovare una ragione per andare avanti con sicurezza (o, nel caso di 22, di trovare la volontà di venire al mondo). Mentre lo spirito comincerà a vedere la bellezza nella vita sulla Terra, Joe imparerà che nelle sue giornate c’è molto di più di quello che aspira a diventare, e che un essere umano è tale quando sa districarsi all’interno dell’essenza variegata della Terra. Le relazioni con gli altri e con il mondo non sono una tappa di una gara dove bisogna necessariamente arrivare a un traguardo, ma una costante possibilità di arricchirsi attraverso l’improvvisazione e l’apprendimento delle più disparate meraviglie che ci passano sotto il naso ogni giorno, ma che difficilmente notiamo, ancorati dalle nostre paranoie.

Voto: 8,5

Edoardo Cappelli