The Sound of Metal

05/04/2021

di Darius Marder
con: Riz Ahmed, Olivia Cooke

Ruben (Riz Ahmed) è un batterista di un duo metal, che insieme alla sua fidanzata Lou (Olivia Cooke) è intento a fare un tour. Durante una serata, subisce improvvisamente un fortissimo calo dell’udito, che si svilupperà in breve in un’atroce sordità, costringendolo a rivedere la propria vita fino ad allora dedicata alla sua passione più grande.

In periodo di pandemia Covid-19, ognuno di noi ha dovuto rivedere i propri progetti in nome di una circostanza più ampia. Tutti sono stati forzati a riconsiderare una normalità, strappataci da un pericolo sanitario senza precedenti nell’era contemporanea. Allo stesso modo, tutti noi speriamo di tornare a ciò che eravamo soliti fare, ma è chiaro che una vicenda del genere non può far altro che rimodellare il nostro ruolo nel mondo. Il film di Darius Marder è del 2019, uscito su Prime Video nel 2020, candidato come Miglior Film agli Oscar 2021. Sfortunatamente veggente nella tematica utilizzata, Marder gioca crudelmente col destino del proprio protagonista, amante della musica ma fatalmente impossibilitato a dedicarvisi. Entriamo perfettamente nella psiche di Ruben, tramortito e arrabbiato, in preda inizialmente a una fortissima negazione, perennemente alla ricerca di ritrovare l’udito attraverso mirabolanti e costosissimi rimedi.

Quella che può sembrare una pellicola che vuole fare luce sulle condizioni nella società di coloro che soffrono di una condizione estremamente debilitante, nasconde in realtà un sottotesto più ampio. Il “viaggio” che Ruben compie, e che lo porta a relazionarsi con una realtà che non aveva mai preso in considerazione, è sinonimo di crescita e cambiamento. Un evento traumatico non è mai un semplice inciampo del nostro percorso sul pianeta, è sempre qualcosa che lascerà uno strascico. Ruben ha sofferto la tossicodipendenza in passato, e ne è uscito principalmente grazie al sostegno di Lou. Questa nuova condizione lo terrorizza, in quanto potrebbe perdere quanto di più prezioso ha. La musica è il sigillo con cui il loro amore si manifesta. Il personaggio di Lou è il perno con cui il mondo di Ruben si modifica e si adatta. Questo avviene anche ad alcune interessanti trovate di messa in scena, come il cambio dei luoghi, delle pettinature e del vestiario. La fotografia alquanto desaturata testimonia in maniera convincente il vuoto e l’assenza di ottimismo che pervade il nostro protagonista. L’entrata di Ruben nella comunità di aiuto per ex tossicodipendenti sordi gli aprirà un nuovo modo di concepire la vita, a cui (in una dinamica alquanto classica) lui dovrà abituarsi, mostrando le proprie vulnerabilità. A tal proposito, molto interessante il personaggio di Joe (Paul Raci), gestore della comunità, demiurgo inamovibile di un progetto ambizioso e lodevole, che non è disposto a guardare in faccia a nessuno pur di portare avanti la propria missione. Il personaggio di Joe dimostra che il nostro punto di vista è relativo. Ogni essere umano ha un suo viaggio e un suo obiettivo, in cui noi potremmo non rientrare (o potremmo uscirne perché abbiamo avuto la presunzione di metterci al centro dell’universo).

Qui entra in gioco il tema della comunicazione. Le riprese si fanno più ampie, le ambientazioni più serene. Man mano che Ruben assorbe diversi modi di interagire con gli altri, il mondo comincia a riaprirsi di nuovo. Siamo umani solo nel momento in cui comunichiamo, in cui entriamo in contatto con l’altro, in cui decidiamo di non rifuggire dalla realtà. Ruben tenta di fare questo varie volte, affidandosi a speranze illusorie. Il “suono del metal” nel titolo è sia la melodica rock con cui Ruben era solito vivere, ma anche il suono metallico che farà crollare quel debole castello in aria che il nostro si era figurato come ultimo disperato tentativo di rimediare a qualcosa di ineluttabile.

I primi piani su Ruben sono rappresentativi e oppressivi, il protagonista è l’unico elemento della scena a essere messo a fuoco. Chiara manifestazione del sentimento di isolamento ed estraniazione che un uomo può provare nel momento in cui la vita così come l’ha conosciuta deve essere ricalibrata dalle fondamenta. Marder gioca perfettamente col silenzio e i modi alternativi di comunicare. Ciò che viene messa in scena non è l’assenza del suono, ma un nuovo modo di riempire quegli spazi lasciati sguarniti dall’incapacità di Ruben di percepire i rumori. Veniamo continuamente sballottati dentro e fuori il punto di vista del nostro, e la differenza di percezione ci arriva chiaramente. Non siamo solo spettatori, ma viviamo in prima persona il dramma e la lontananza dal mondo.

Un’altra nota di merito va alla recitazione degli attori. Sentita ed emotiva, ma mai eccessivamente enfatica o patetica, anche nei momenti più struggenti. Tuttavia, alcune scelte di sceneggiatura non sono felicissime, e in generale il film soffre di alcuni punti morti che ne vanno a inficiare il ritmo, provocando cali d’attenzione. Un buon film, che coinvolge e commuove per la sua semplicità, e che per la sua componente drammatica potrebbe avere qualcosa da dire, la notte degli Academy.

Voto: 7

Edoardo Cappelli