First Cow

08/07/2021

di Kelly Reichardt
con: John Magaro, Orion Lee, Toby Jones

A.D. 1820, gente di frontiera alla conquista dell’Oregon: gente pratica, spiccia, anche brutale, che attraversa una vita rozza e indefinita senza un’ambizione, un desiderio, una prospettiva, se non quella di cercare di arrivare vivi all’alba successiva. Tra trappers, cacciatori di pellicce e disperati di varia origine e destino, il timido cuoco Cookie e il lungimirante King-Lu si incrociano, si incontrano e si organizzano: cercheranno di far fortuna sfruttando il talento del primo e la spregiudicatezza del secondo, rubando nottetempo il latte dell’unica, preziosa mucca del Sovrintendente (la First Cow, per l’appunto) per preparare, cuocere e vendere a peso d’oro (letteralmente) deliziose frittelle al latte ai rozzi abitanti del forte.

La trama è molto semplice, lineare: a partire dalla scena iniziale (la scoperta di due scheletri sdraiati l’uno accanto all’altro, alla faccia del finale a sorpresa…), il racconto scorre in flashback, il primo in scena è Cookie, vessato e minacciato dai trappers che lo hanno ingaggiato per accompagnarli nei loro vagabondaggi. Il cibo nella foresta è scarso, la fame è una cattiva compagna e bisogna arrangiarsi a trovare di che sfamare i tre brutali cacciatori di pellicce. E invece Cookie trova King-Lu, nudo nel bosco, in fuga disperata da gli assassini del suo amico. E il timido Cookie, cautamente, lo aiuta. Cautamente lo veste, lo sfama, lo ospita, lo porta fuori dai pericoli. Cautamente e clandestinamente, perché certo i suoi compagni di viaggio non gradirebbero una bocca in più da sfamare.

Poi i due si perdono di vista, per ritrovarsi poi entrambi in salvo poi al Forte: e nel clima rozzo e un po' confuso, incerto, della piccola comunità rinchiusa da quelle palizzate matura l’idea di tentare l’avventura, cercare un ricatto economico, una via d’uscita da quel destino cupo e ristretto.
Ruberanno il latte, mungeranno di soppiatto – a rischio della vita – la vacca del Sovrintendente: Cookie sommessamente coccolandola, King-Lu appollaiato su un ramo, a far da vedetta nella notte.

First Cow è per certo un film minimalista, povero nei mezzi (quasi claustrofobiche le riprese, sempre in campo medio, sempre nelle stesse ambientazioni, sempre con gli stessi personaggi) e nel linguaggio narrativo: scarno, essenziale, spigoloso, a volte sconnesso o ripetitivo.
Non è certo un film che t’accompagni amorevolmente lungo la storia che ha da raccontare, First Cow, devi fare la tua fatica, senza aspettarti sconti. Eppure lascia comunque un suo sapore, una sua atmosfera, soprattutto grazie alla performance molto calibrata e riuscita dei due interpreti principali (molto bravo anche Toby Jones, un Sovrintendente vanesio e sciocco), che tengono insieme e rendono credibile la vicenda, quasi sempre ovviando alla sensazione di una certa sconnessione del racconto.

Voto: 6,5

Davide Benedetto

Come avvenne la conquista del West? Probabilmente, in modo del tutto opposto a quello propagandato da una filmografia altamente stereotipata ("bianchi buoni/indiani cattivi"). Sporchi, brutti e cattivi erano davvero i primissimi coloni dell'Oregon Country, coperti di cenci e costretti per spirito di avventura a una vita miseranda, tra grandi povertà, ubriachezza e violenza. Il film "The first cow" ("La prima mucca") della regista Kelly Reichardt, basato sul romanzo di Jonathan Raymond "The Half-Life", si presenta con una cura scenografica e uno studio etnografico di prim'ordine, che fanno dell'opera un perfetto documento iconografico di Com'eravamo. Una natura verginale e incontaminata è la vera padrona e proprietaria del sistema narrativo, che inizia con un uomo affamato intento a cogliere dei funghi commestibili nel sottobosco per mangiarli crudi, croccanti come un frutto acerbo, mentre la sua mano avvolta in stracci luridi per ripararsi dal freddo rovescia una lucertola caduta sul dorso, perché riprenda a muoversi liberamente. Poi, ci sono silenziosi e solenni i nativi indiani d'America, i loro costumi e coprispalle fatti di lunghe foglie secche; i modi di camminare, vestirsi e svolgere attività sociali accanto alla comunità dei bianchi allo stato brado, senza libri né Stato. E quel loro essere degli aborigeni così naturali e consustanziali all'ambiente selvaggio, li eleva in senso etnologico ben al di sopra della non-cultura di cui si fanno portatori i nuovi invasori.
All'epoca (siamo nel 1820) l'Oregon Country era una regione contesa della costa pacifica del Nord Est, occupata a partire dal 1810 e fino al 1830 dai commercianti di pelli inglesi e francesi che si insediarono lungo le sponde del Columbia River, sotto la protezione dell'American Fur Company ("La Compagnia", nei dialoghi dei protagonisti). Ma non ci sono nel film né massacri, né violenze tra i due gruppi umani che, semplicemente si ignorano, contaminandosi quanto basta a debita distanza, per trarre un minimo di reciproca sussistenza, caratteristico della dominazione anglo-francese, orientata alla convivenza pacifica con gli indigeni. È, in fondo, il regno dei primi trapper che catturavano e commerciavano animali da pelliccia, a quel tempo molto numerosi e diffusi, come i castori. La storia, costruita tutt'attorno ai passi lenti, alle frasi asciutte e dense dei protagonisti illetterati, narra dell'amicizia profonda tra un cinese cosmopolita, braccato da avventurieri venuti dalla Russia, e un colono aspirante cuoco, che trova il suo malpagato e miserando lavoro come cuciniere accompagnatore di una piccola compagnia di trapper. Il forte al quale sono diretti è quando di più lontano si possa immaginare ricordando le gigantografie hollywoodiane di Fort Apache, con le sue palizzate enormi e gli accasermamenti impeccabili. Il realismo viscontiano della Reichardt ci mostra la costruzione così come la si può vedere nelle stampe d'epoca, poco più di una semplice palizzata al cui interno, e questa è una vera sorpresa, non si vede mai un soldato! Il cuoco e il cinese sono due anime gemelle e pie in cui il primo è pervaso da uno spirito francescano che ama le creature di Dio, mentre il secondo sogna il sogno americano dell'arricchirsi lavorando o, all'epoca, coltivando l'illusione del colpo di fortuna, come quello di trovare pepite d'oro nel letto dei fiumi.
Poiché, però, le mani d'oro le ha il suo amico cuoco, ecco che si presenta l'occasione per inventarsi una mini pasticceria di strada, portando nell'area mercatale del forte biscotti fatti in casa in un forno primitivo ricavato all'interno di una rudimentale baracca di sterpi e foglie (così simile a quelle che, ancora oggi, erigono i clandestini lungo le sponde dei fiumi delle grandi città italiane!). Solo che, per renderli appetibili, risulta introvabile l'ingrediente principale: il latte vaccino. La situazione cambia, quando arriva nell'accampamento, su una chiatta che fa servizio lungo il fiume, una mucca da latte di proprietà del sovrintendente della Compagnia. Un funzionario inglese azzimato e nostalgico  della vita londinese, mandato nella colonia a curare gli interessi della madrepatria, ma più adatto a gestire il commercio degli schiavi che un rudimentale abbozzo di società urbana.
Così i due inseparabili amici si fanno come il Gatto e la Volpe: la seconda che, di notte, sale di vedetta su un albero, mentre il suo complice più esperto di campagna munge clandestinamente l'unica vacca di tutta la zona, incautamente ormeggiata nei pressi della lussuosa casa padronale. Occorre dire che, all'epoca, rubare qualcosa a qualcuno (in questo caso di specie, il latte munto direttamente dalla mammella della mucca, senza l'autorizzazione dal proprietario) significava la condanna a morte senza passare per un tribunale. Ma quel latte valeva il rischio per sognare una vita migliore, come la gestione di un alberghetto lungo qualche via di transito, o di una panetteria per sfamare i nuovi conquistatori. La fine della storia inizia dall'inizio, ma la Reichardt lascia allo spettatore la chiave risolutiva che, in apparenza, sta nelle mani di un Uriah Heep (alla David Copperfield) ante litteram.

Voto: 8

Maurizio Bonanni