The House

21/01/2022

di Emma de Swaef & Marc James Roels; Niki Lindroth von Bahr; Paloma Baeza
con:

In una normale serata in cui cerco un film da guardare, Netflix – con ottimo senso della previsione – mi offre un suggerimento prezioso. Appena i miei occhi hanno visto pupazzi in plastilina e stoffa che si muovevano in modo fluido, lasciando intravedere quei lievi e impercettibili scatti, il mio cuore si è infiammato. Risulto sempre poco oggettivo quando si parla di film d’animazione realizzati con una tecnica inconsueta; che escono fuori dall’imposizione della computer grafica ad ogni costo. “The House” è un film in tecnica Passo Uno che usa la casa come archetipo e come delimitazione di due mondi: quello interiore e quello esterno, in eterno conflitto. Il progetto si dispiega in tre diversi episodi; tre capitoli anticipati da un titolo che suggerisce lo spirito della breve storia che andremo a vedere. La dimensione domestica è il perno centrale di tutte le narrazioni, mentre l’ambientazione temporale differisce in ogni vicenda (passato, presente e futuro). Qui i personaggi si vedono catapultati fuori dalla loro zona di comfort, senza mai tuttavia abbandonare lo spazio in cui si trovano – eccezion fatta per il finale del primo racconto, dove la fuga dalla casa diviene simbolo di crescita e liberazione dalle stesse logiche che hanno prodotto l’orrore.

Il film affronta tematiche quali l’attaccamento affettivo ai propri luoghi di appartenenza; la presa di coscienza riguardo l’impossibilità di governare il proprio destino; il coraggio di andare oltre le proprie ossessioni per raggiungere qualcosa di nuovo. Il locus amoenus (solo nelle aspettative dei personaggi) diviene l’espressione della più profonda personalità dei protagonisti e, seppur con atmosfere e narrazioni diverse, aiuta l’intera opera a mantenere un costante senso di “unheimlich”, se non addirittura di vero e proprio horror in alcuni momenti. Stilisticamente parlando, la pellicola ha vari rimandi e molteplici ispirazioni. L’approccio “adulto” e cupo al mondo dell’animazione ricorda sicuramente i lavori dello studio Laika, mentre la geometria e la perfezione simmetrica di alcune inquadrature rimandano nettamente ai film realizzati con la stessa tecnica da Wes Anderson. D’altro canto, possiamo anche individuare influenze del regista ceco Jan Švankmajer nel surrealismo inquietante che varie scene provocano. Le musiche sono affidate alle suggestioni oniriche della chitarra di Gustavo Santaolalla, due volte vincitore dell'Oscar alla migliore colonna sonora: nel 2006 per “I segreti di Brokeback Mountain” e nel 2007 per “Babel”, identificabile da alcuni anche come compositore per la colonna sonora della celeberrima saga videoludica “The Last of Us”.


Il primo episodio, “And Heard Within, A Lie is Spun” («E dentro di me, si intesse una menzogna»), diretto a quattro mani da Emma de Swaef e Marc James Roels, narra la storia di un’umile famiglia che vive in una piccola casa nella campagna inglese dell’Ottocento. Derisi dagli altri membri abbienti e altolocati della loro famiglia, i protagonisti accettano un patto con una figura misteriosa e sinistra: il signor van Schoonbeek. Questo Mefistofele di faustiana memoria propone alla famiglia di trasferirsi nella nuova lussureggiante dimora di sua proprietà in costruzione; i nostri dovranno curarla e gestirla senza pagare alcunché. Accecati dalla voglia di migliorare il proprio status sociale, i genitori Raymond e Penny accettano di buon grado, mentre la loro figlia Mable si rende presto conto che qualcosa non va. Parliamo senza dubbio dell’episodio più interessante dell’intera pellicola. La casa in cui la famiglia va a risiedere diventa una trappola senza uscita, un labirinto distorto e funesto che muta in continuazione. Le ossessioni arriviste tipiche dell’età adulta portano i due genitori ad abbandonare sempre più la propria individualità per venire assorbiti dal luogo oggetto del loro desiderio, per riempire il vuoto derivato dalla mancanza di una buona reputazione nata dal loro svantaggio economico. La forte contrapposizione di chiari-scuri delinea una fotografia eccezionale e fornisce un aspetto squisitamente gotico alla storia (che ha già di per sé il sapore di un romanzo vittoriano). I personaggi che si susseguono – dalla famiglia protagonista, al maggiordomo, agli operai – non sono altro che burattini in un gigantesco teatrino di cui ignoriamo la ratio. La contrapposizione tra mondo adulto e infanzia sta tutta nella spontaneità e nella capacità di vedere le cose per quello che sono, senza scendere a compromessi forzati.

Il secondo episodio, “Then Lost is Truth, that Can't be Won” («Perduta è la verità che non si può vincere»), diretto da Niki Lindroth von Bahr, è ambientato nella contemporaneità. Un topo antropomorfo in estrema difficoltà economica cerca in tutti i modi di sistemare e vendere una casa con numerosi piccoli problemi strutturali. Durante le varie visite che spezzano la sua totale solitudine, solamente due strani individui sembrano interessati all’acquisto e diverranno sempre più invadenti. Questo è l’episodio che più si avvicina al filone del body horror, per via degli elementi profondamente grotteschi dei corpi dei personaggi presenti, congiunti alla tematica della trasformazione della propria apparenza che rimanda a un profondo cambiamento psichico. “Il Pasto Nudo” di Cronenberg si mescola alla “Metamorfosi” di Kafka. Il realismo alla base della storia (che si disintegra nel finale) sembra in tutta onestà intaccare il fascino e il ritmo della narrazione. Il nervosismo e l’ansia del protagonista sono frutto di un contesto che pretende da lui un certo livello di performance ed efficienza. La ricerca di una stabilità del topo viene inevitabilmente travolta dall’effetto domino degli eventi, casuali e imprevedibili, che hanno come unico possibile risultato una regressione di tipo istintivo. Il degrado e il perturbante permeano la seconda parte, ma aleggiano costantemente senza invadere le inquadrature con prepotenza. Il concetto di “parassita” è centrale: il cambiamento repentino dei ruoli di dominio nella casa ricorda il film “Il Servo” di Joseph Losey, del 1963. La pretesa di controllo su un contesto è una mera illusione, nata da convenzioni sociali atte a regolare l’esistenza condivisa, ma che non sono in alcun modo una garanzia di continuità.

Il terzo episodio, “Listen Again and Seek the Sun” («Ascolta di nuovo e cerca il sole»), diretto da Paloma Baeza, racconta di un mondo abitato unicamente da gatti e dell’amore di Rosa per la propria casa, in un futuro distopico in cui un’alluvione ha cancellato ogni vita nei dintorni e ha costretto gli inquilini a fuggire (ora la casa emerge solo in parte dallo specchio d’acqua). Vi sono altri due squattrinati condomini che non possono pagare l’affitto, rendendo di fatto impossibile il piano di ristrutturazione della protagonista, la quale si illude che risistemando l’edificio tutto tornerà come prima. La forza di questo episodio – il più “Andersoniano” dei tre per estetica e per la coesistenza di realtà e sogno – risiede nel non-detto. Non sappiamo nulla dell’alluvione che ha colpito la zona e che ha apparentemente messo fine alla centralità della vita “umana” nell’ecosistema. Allo stesso modo, non sappiamo nulla della formazione dei personaggi. L’arrivo di Cosmos, un fricchettone spiritualista tremendamente irritante, genera un contrasto con la pragmatica visione del mondo di Rosa. Tuttavia, è solo dal contrasto che può arrivare la crescita. La metafora della partenza in barca rimanda in tutto e per tutto all’abbandono del lido sicuro, per abbracciare il futuro e l’imprevedibilità della vita. Altrettanto evidente il significato dell’onnipresenza della nebbia, la quale impedisce di vedere in lontananza ciò che sarà. Se questo capitolo possiede un difetto, si tratta proprio di ciò: gli elementi che lo compongono sono eccessivamente didascalici. Rosa è ancorata alle proprie convinzioni e a un passato che non potrà mai tornare. Questo la porta a rifiutare un’evoluzione che non è solo imprescindibile, ma persino positiva.

In conclusione, “The House” è un gioiello che riflette ampiamente sul concetto di “casa”, sia reale che metaforico. È presente, in aggiunta, un utilizzo del tempo molto interessante. Nell’episodio ambientato nel passato i protagonisti sono umani infettati dalla sete di riconoscimento, in un contesto dove la casa viene inaugurata ma cessa di essere un luogo dell’anima. Nei successivi, invece, la casa non è altro che un involucro impossibile da governare, condannato a cadere a pezzi da un’umanità che ha ormai cessato di essere tale. Questa “liaison” è individuabile da alcuni minuscoli indizi che vengono lasciati nel corso dei vari segmenti (come l’indirizzo dell’edificio del secondo capitolo, “van Schoonbeek Lane”, portatore del nome del tetro contrattatore della precedente vicenda). Se l’aspetto estetico curato alla perfezione e il sentore orrorifico permangono durante tutta la pellicola, lo stesso non si può dire per quanto riguarda la fluidità narrativa e l’attrattività dei vari personaggi che si susseguono. Inoltre, la presenza a rimandi letterari e cinematografici è ampissima (questo può essere sia un difetto che un pregio, a seconda dei gusti dello spettatore).

Apprezzo enormemente che una piattaforma generalista come Netflix dia spazio a progetti d’animazione diretti da registi europei e indipendenti (come fu per “Errementari”, meraviglioso racconto fantasy spagnolo prodotto sempre dalla N rossa). Tuttavia, non posso che lasciarmi travolgere dall’amarezza di non poter vedere questa gioia per gli occhi in sala. La presenza delle piattaforme online è importante, ma si può sempre prendere la strada sbagliata. La sala è, in fondo, la nostra unica vera casa.

Voto: 7,5

Edoardo Cappelli