Un curioso film italiano degli anni ’70, con Gassman e Villaggio, titolava “Ma che c’entriamo noi con la rivoluzione?”. Leggendo le prime righe del bel volume a cura di Riccardo Rosati e Carlomanno Adinolfi: “Samurai d’inchiostro”, ci viene da parafrasare questo titolo con un “Ma che c’entriamo noi con i samurai?”.
Si sa che il popolo italiano è levantino per natura, voltagabbana per ben due guerre, Francia o Spagna purché se magna. Cosa c’entriamo noi quindi con un popolo, quello giapponese, ferreo, intransigente, dalle tradizioni (almeno fino a qualche decennio fa) molto ben radicate e presenti. Il volume, pubblicato dal marchio Profondo rosso di Luigi Cozzi, va alle radici di quella che è la percezione e la auto-percezione che abbiamo del Giappone e che il Giappone ha di sé stesso, attraverso i suoi miti e i suoi archetipi. Giustamente il volume si apre sotto il segno di Yukio Mishima, che soprattutto con la sua opera “Sole e acciaio” ha saputo ridare linfa al mito fondante del Giappone medievale: il samurai, o anche il ronin, cioè il samurai senza padrone che vaga per i villaggi nipponici riportando la giustizia e il senso dell’onore militare. Le opere denominate Chanbara, di cui si occupa Rosati, sono il corrispettivo dei nostri film di “cappa e spada”, o dei film western americani, dove i guerrieri rivali si affrontano e danno prova del loro valore. Rosati giustamente cita Julius Evola e la sua filosofia dello zen. Inoltre ci riporta alla mente opere classiche della tradizione giapponese come lo Hagakure, la via del Bushido, testo fondante della tradizione nipponica delle arti dedicate alla guerra. Rosati ci descrive alcuni degli Chanbara più celebri, dalle storie che hanno protagonista il ninja Kamui a molti film di Akira Kurosawa come “Yojimbo” o “I sette samurai”.
Il libro procede con la descrizione di opere come “La Principessa Mononoke”, che compongono il filone fantastico ed ecologico dei manga e degli anime moderni (i manga sono i fumetti nipponici, gli anime la loro trasposizione televisiva sotto forma di cartone animato). Opere che hanno il loro più importante rappresentante nell’autore e mangaka Hayao Myazaki, fondatore del celebre studio di animazione nipponico Studio Ghibli.
Nel suo capitolo, Carlomanno Adinolfi ci ricorda l’invasione di prodotti anime giapponesi che sbarcarono in Italia a partire dagli anni ’70. Non smetteremo mai di ringraziare la compianta Nicoletta Artom, funzionaria RAI, che notò una innovativa e scintillante serie animata giapponese e la propose in prima serata con un successo travolgente: si trattava di Goldrake, Atlas Ufo Robot, frutto dell’originario manga di Go Nagai. Il successo di questa serie, fatta di astronavi spaziali, robot dai magli perforanti, guerre nello spazio, ebbe seguito in interpellanze parlamentari che osteggiavano la presunta violenza del cartone animato e la sua altrettanto perfida e presunta influenza negativa sui bambini. Nel saggio viene ricordato a questo proposito l’articolo di Silverio Corvisieri, parlamentare del PCI, dal titolo “Un ministero per Goldrake”, la Repubblica, 7 gennaio 1979. In generale tutta la stampa e tutti gli intellettuali del tempo si scagliarono, da pedagoghi rispettabilissimi, contro Goldrake, ad eccezione del poeta e scrittore di fiabe Gianni Rodari, che ricordò come il robot d’acciaio nipponico ripercorresse nelle sue gesta quelle di eroi mitologici e occidentali come Ercole e Maciste.
Successivamente, il successo degli eroi d’animazione giapponese si spostò sulle reti Mediaset e in generale private. Arrivarono e si stabilizzarono per tutti i decenni successivi, sull’onda di Goldrake, personaggi che ai nati della mia generazione (sui 50 anni oggi) fanno scendere più di una lacrimuccia: Mazinga, Uomo tigre, Gundam, Daitarn 3, Daltanious, Lady Oscar, Holly e Benji, i Superboys, Ken il guerriero ecc. Tutti personaggi che hanno nei samurai e nei ronin il loro mito fondante e generativo.
Il volume suggerisce come ci sia sicuramente anche una buona dose di “melting-pot” in queste opere, sottolineando la linfa creativa che ad esempio un Gundam, robot tecnologico ad opera di Yoshiyuke Tomino, ha tratto da romanzi come “Fanteria dello spazio” di Robert Heinlein, risalente negli USA a fine anni ’50. Il libro infatti si chiude con il testo di Alessandro Bottero, che racconta le influenze reciproche fra autori statunitensi e autori giapponesi, ad esempio quanto alcuni personaggi Marvel come Wolverine traggano temi e motivi dai leit-motiv nipponici. E di opere capitali del fumetto americano come Ronin di Frank Miller che si ispirano tanto al fumetto europeo quanto a quello del sol levante.
Ma quindi la domanda iniziale resta inevasa: Alla fine che c’entriamo noi, noi italiani, con i samurai? Non siamo noi il popolo dei furbi, degli Alberto Sordi, dei Fantozzi? E quindi i samurai?
Rispondiamo ritornando al film “Che c’entriamo noi con la rivoluzione”. Che è in fondo un remake in salsa messicana del celebre film di Monicelli “La grande guerra”, con lo stesso Gassman e Sordi. In quel film, come si sa, gli italiani furfanti e fifoni, di fronte al plotone d’esecuzione nazista, mostrano un inaspettato scatto d’orgoglio. Non tradiscono i loro connazionali e si fanno fucilare, anche se in maniera un po' parodistica come fa Sordi. Dimostrando quindi che sotto la buccia levantina, gli italiani forse nascondono una noce eroica e infrangibile. Proprio come quella dei samurai. E’ una riflessione propositiva e di speranza, che ci riallaccia con i nostri cavalieri di ventura e Rolandi della tradizione, alla tradizione eroica e blasonata dei cavalieri di ventura con saio e katana del paese dove il sole sorge.