Spesso Cavalleria Rusticana e Pagliacci vengono associati nel calendario operistico e molto accomuna le due Opere: l’essere entrambe melodrammi in un atto spezzati da un intermezzo sinfonico, l’appartenere a quel “verismo musicale” che vede come protagonisti gente del popolo (Mascagni si rifà alla novella di Verga, Leoncavallo a un fatto di cronaca nera), l’essere storie passionali a forti tinte incentrate sul dramma della gelosia. Due opere prime e le più memorabili nella carriera dei due musicisti, che irrompono sulla scena con la forza dell’innovazione. Di Cavalleria Rusticana, dove il preludio e l’intermezzo di sublime bellezza restano tra le pagine più incantevoli della Lirica, sorprende da subito la serenata in dialetto siciliano a sipario chiuso, così come il finale che precipita con il grido “Hanno ammazzato compare Turiddu!”. Pagliacci, su libretto scritto dallo stesso Leoncavallo, è tutto un gioco di specchi tra realtà e finzione, commedia e tragedia, teatro nel teatro: così da sol si presenta il Prologo, esortandoci a commuoverci alla vicenda a cui assisteremo, e la farsa che i commedianti inscenano davanti al pubblico del villaggio, con parodia della musica settecentesca, riflette la tragedia vera che i protagonisti stanno vivendo, finché Canio, costretto a vestire la giubba e a ridere “del duol che mi avvelena il cuore”, anziché i lazzi estrae il coltello e “la commedia è finita”.
Anche Mario Martone abbina dunque Cavalleria Rusticana e Pagliacci nella regia del 2011, riportata poi alla Scala nel 2015 ed infine in questi giorni nella ripresa di Federica Stefani (lo spettacolo è stato trasmesso anche in streaming). Un accostamento fatto tutto di similitudini e di contrasti. Abbiamo assistito, con sempre rinnovato stupore, alla sua settima rappresentazione e sarà ancora in scena il 5 maggio.
Se Cavalleria Rusticana è tutta immersa nell’atmosfera della Sicilia e dell’epoca in cui il melodramma è ambientato, in una scena pur spogliata da orpelli e folclore e ancora più spoglia nel far posto ai duetti finali in cui incombe la tragedia, dove ad emergere è il contrasto tra sacro e profano, la Messa di sfondo alla passionalità sensuale dei protagonisti al proscenio, il nero di Santuzza rosa dalla gelosia e il provocante rosso di Lola, per Pagliacci Martone sceglie di spostare l’ambientazione in là di un Secolo (per sottolinearne la contemporaneità e il connotato di tragedia senza tempo) e crea una scena suggestiva con un grande cavalcavia sotto cui sostano roulotte scalcinate e camionette di girovaghi e in cui si esibiscono acrobati e giocolieri. Apre Cavalleria Rusticana con il bordello a cui si reca Compare Alfio e Pagliacci con un misero viavai di prostitute. L’uccisione finale arriva quasi tra il pubblico, per trascinarci in una tragedia di cui non siamo semplici spettatori. La bella scenografia di Sergio Tramonti in Pagliacci evoca rimandi al Cinema degli Anni Sessanta (non dimentichiamo che Martone è regista cinematografico) e tinge lo squallore di una periferia con crepuscoli infuocati.
Ottima la direzione di Giampaolo Bisanti e l’esecuzione di Saioa Hernández (Santuzza), Yusif Eyvazov (Turiddu), Elena Zilio (Mamma Lucia) e Francesca Di Sauro (Lola) per Cavalleria Rusticana e Fabio Sartori (Canio), Irina Lungu (Nedda), Mattia Olivieri (Silvio) per Pagliacci. Un applauso particolare al baritono Amartuvshin Enkhbat, unico presente sulla scena in entrambe le opere, nel ruolo di Compare Alfio prima e quindi di Tonio, il deus ex machina di Pagliacci, il girovago deforme e deriso che al pari di Iago ordisce la vendetta della gelosia.