A colloquio con Fabrizio Gifuni

24/07/2023

Fabrizio Gifuni, a teatro come al cinema, preferisce le storie di persone. È cresciuto con quella generazione di attori di Accademia, la Silvio d'Amico, oggi tra i principali sul grande schermo: Luigi Lo Cascio, Alessio Boni, Pierfrancesco Favino e altri quali Riccardo Scamarcio, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria. Lo abbiamo incontrato allo ShorTS International Film Festival di Trieste dove ha ricevuto il Premio Interprete del Presente.

 

Parliamo del tuo rapporto con Marco Bellocchio iniziato con Aldo Moro e continuato con Rapito nel ruolo dell’ultimo degli inquisitori di Bologna. Come si arriva a preparare un ruolo del genere?

 

FG. “Ho iniziato a lavorare con Marco con Marx può aspettare. Prima di Rapito stavo portando a teatro uno spettacolo sulle lettere di Moro. Avevo quindi acquisito una giusta distanza per essere Aldo Moro. La scena della confessione al prete avrei dovuto girarla dopo qualche mese dall’inizio delle riprese perché si arriva a questa scena dopo cinque ore, cinque ore e mezzo dall’inizio della serie. Avevo tempo, ho pensato, anche di studiare il piano di lavorazione. Per una serie di motivi però ho girato questa scena tre giorni dopo l’avvio delle riprese. È già successo per altri film di iniziare dalla confessione finale. In Esterno notte si racconta la vita di vari personaggi, fuori dalla prigione di Moro, dicendo quello che succede nei cinquantacinque giorni di prigionia. Preparare il personaggio di Moro voleva dire per me dimenticare quello che avevo fatto dieci anni prima quando Moro aveva dieci anni in meno e anche io (Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, ndr). Voleva dire superare la strage di piazza Fontana. Ho annunciato la serie al Salone del Libro di Torino a Nicola Lagioia. Il lavoro a teatro Con il vostro irridente silenzio, scritto nel 40esimo della morte, ha convinto Bellocchio. Io però mi sono preso tempo per pensarci. Avevo tirato fuori le carte, un centinaio di lettere, il memoriale Moro. Erano state tenute largamente nascoste ma dopo la caduta del muro di Berlino sono state ritrovate, anche se sembrava che nessuno avesse voglia di leggerle. Ho pensato che potessero diventare uno spettacolo. Quando Marco era pronto, io andavo in scena ma Marco non lo sapeva e nemmeno io sapevo di Esterno notte. È stato un lungo lavoro immersivo. Bellocchio in questo momento è patrimonio dell’umanità. Sono riuscito a creare con lui un rapporto di grande intesa, a partecipare al processo creativo. Un’occasione unica questo ruolo di Moro, arrivando da una tale lunga rincorsa.”

Che sensazione hai, come attore, di come sei riuscito ad interpretare il ruolo del segretario della DC? 

FG. “Non sono mai contento. Non è un vezzo. Il cinema è cosa meravigliosa ma fissa. A teatro se una sera non sei al cento per cento l’indomani sera speri che andrà meglio. Al cinema quello che è fatto è fatto. Dopo le prime visioni con le dita davanti agli occhi ora mi dico che più di così non avrei potuto fare. Una grande gioia è stata la risposta del pubblico. Il film è nato per la TV ma è passato in due puntate nelle sale. Ha vinto molti David di Donatello e Nastri d’argento grazie alla buona risposta del pubblico. Quando vedo un attore che mi piace sul grande schermo faccio delle telefonate per manifestare il mio entusiasmo. Ecco ho ricevuto tante telefonate e messaggi. Lo abbiamo portato a New York, a Londra... l’emozione del pubblico rimane la cosa più bella.”

Paolo VI (nella mini-serie Paolo VI - Il Papa nella tempesta, diretta da Fabrizio Costa) e Alcide De Gasperi (nella mini-serie De Gasperi, l'uomo della speranza, diretta da Liliana Cavani) sono altre due tue grandi interpretazioni. Poi c’è stato Peppe Dell’Acqua che aveva iniziato a lavorare con Basaglia. In C'era una volta la città dei matti... di Marco Turco, del 2010, interpreti Franco Basaglia tra Trieste e Gorizia. Cosa ha significato questo ruolo per te?

FG. “È stato un piacere recitare con Vitaliano Trevisan. Questo film è frutto di molta documentazione: la società ha fatto quello che pensa di fare. Con grande onore e responsabilità ho interpretato Basaglia, un medico che, con le sue collaborazioni, ha scritto una pagina di medici e psichiatri. Era nato a Gorizia, poi a Trieste ha lasciato il suo segno sulla salute pubblica. Peppe Dell’Acqua è stato il mio Virgilio: sono andato nelle strutture psichiatriche. Ho visto come la Legge 180 era applicata e anche tutto ciò che poi veniva preso come scusa. Ho visto con i miei occhi cosa era sbagliato e cosa bisognava fare. Altre regioni hanno speso quei soldi in altro modo. Tutto viene privatizzato. C’è da dire che la sanità pubblica è buona nel nostro Paese. Nel film c’è una scena corale di ascolto. Per l’attore l’ascolto è tutto e l’ascolto era uno degli strumenti della psichiatria basagliana. Le persone potevano far valere i propri diritti e non essere dei numeri senza diritti. Nella scena corale l’azione scenica è stata interessante dal punto di vista professionale e umano. Abbiamo girato a Trieste, Gorizia e Imola dove c’è un manicomio con dei padiglioni rimasti uguali. Abbiamo messo gli strumenti di ritenzione e gli strumenti di tortura. Sono esperienze, come quella di Esterno notte, artistiche ma che ti modificano. Veniamo a Marco Turco, un regista di sensibilità. I traguardi non si realizzano mai del tutto. I processi democratici vanno riaffermati giorno per giorno. Ogni giorno vengono messe in discussione le basi della Costituzione, invece i diritti vanno affermati ogni giorno.”

La meglio gioventù è un grande racconto popolare (il titolo è ispirato a una raccolta di poesie di Pasolini), un film in cui è stata presentata una nuova generazione di attori. Anche nella serie Romanzo criminale ci sono nuovi attori che sono andati avanti. Come è l’intesa con "la meglio gioventù" del cinema con cui condividi l’etica del lavoro di attore?

FG. “C’è una giusta solidarietà. Nel periodo della pandemia è nata l’Unità di interpreti UNITA per iniziare a ristabilire, anche fuori dagli schermi e dal palco, le regole del gioco, i diritti e i doveri di una professione. Il nostro è un lavoro fatto di disciplina con orari, contratti, tipologie di contratti che non sono mai esistiti. Sono anni in cui la categoria sta diventando più unita.”

Pippo Fava era un giornalista scomodo e nel 1984 fu ucciso da Cosa nostra. Possiamo considerarlo un’altra vittima di questo Paese. Lo racconta in Prima che la notte Daniele Vicari. Nel film compare Fabrizio Ferracane. In una scena siamo in un teatro e Fava ha i primi sospetti di tradimento. Come si è rapportato per entrare nelle pieghe e nelle piaghe di una persona emblematica ma dimenticata?

FG. “Pippo Fava è stato un giornalista d’inchiesta, pittore, scrittore, drammaturgo e regista. Era un uomo di spettacolo: la sua caratteristica era il tono. Come un po’ Peppino Impastato ne I cento passi, con un tono irruente, acido, provocatorio. Daniele Vicari voleva raccontare la vitalità di Pippo Fava, un bravo affabulatore pieno di donne, di vita. Come Pippo Calò ne Il traditore, la vita se la “prendeva a mozziconi”, come si dice. Moro non aveva il carattere di Fava ma non dobbiamo fare l’errore di precipitarlo nel pozzo nero degli ultimi cinquantacinque giorni. Aveva ingegno, doti politiche e la sua è una storia da raccontare bene. L’importanza di raccontare storie attraverso il Cinema e la TV è centrale ma si possono fare danni, è una responsabilità decapitata. Si raccontano storie di persone che ci sono state, di famiglie di persone che ci sono state e che ci sono. Chi costruisce il racconto è chi andrà a stendere il film che si vedrà nelle sale: prima di tutto, dunque, c’è il film scritto. Il secondo film viene girato e il terzo viene montato. Il lavoro di montaggio è il film. Sono contento del rapporto con questi registi, un rapporto non sempre idilliaco. In parte ho vissuto, dall’interno delle opere, dei capolavori, dentro una relazione non semplicissima. Gli ultimi anni sono riuscito a instaurare un dialogo molto interessante con gli attori. Una volta la categoria degli attori non era una cosa sola. Marlon Brando disse che vi era una separazione tra la carriera dell’attore di teatro e di quello del cinema e chi non sapeva fare né questo né quello faceva la televisione. Oggi non noto questa suddivisione.”

Parliamo di Gadda e Pasolini, tratti anche dai loro libri. I due spettacoli da te ideati su questi due grandi scrittori hanno delle somiglianze tra loro?

FG. “L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro l’ho portato anche a Trieste dove ho fatto duecento repliche. Il prossimo anno porterò ancora in giro lo spettacolo tratto dalle carte di Moro mentre proporrò anche Il male dei Ricci, il cui titolo è tratto da un verso di una poesia di Pasolini, ma mi rifaccio anche agli Scritti corsari. Sono due spettacoli sui fantasmi della nostra storia, su personaggi a cui non è stata data degna sepoltura. Pasolini è morto nel 1975, Moro nel ’78. Non ne abbiamo ancora fatto i conti. Il teatro diventa la casa dei fantasmi, il luogo dove tornano i fantasmi di Amleto ma anche i sei personaggi in cerca d’autore. Sono storie appartenute alla nostra Storia, anche se a teatro sono gli spettatori che fanno lo spettacolo.”

Paolo Virzì ci ha insegnato cos’è “il capitale umano” e ti ha chiamato per il ruolo di Dino. Nel film il tuo partner era Fabrizio Bentivoglio. Come è stata l’esperienza?

FG. “Era la prima volta che lavoravo con Bentivoglio. Era un attore di riferimento ed io ne avevo grande ammirazione. Siamo nel 2014. Io ero emozionato. La prima sequenza girata era tra me e Fabrizio. Il cinema di Paolo è un cinema di grande commedia. Abbiamo girato un piano sequenza con l’operatore che ci girava attorno. Era il primo giorno di riprese. Il set è un luogo rumoroso. Qui ognuno fa il proprio lavoro. Ovviamente durante le riprese ci deve essere silenzio ma prima e dopo c’è il putiferio. In questa scena del confronto con Bentivoglio, quando gli comunico che ha perso tutto l’investimento, subito dopo lo stacco c’è stato silenzio per un attimo e poi l’applauso della troupe. Virzì ama molto gli attori. Vorrei fare più commedie.”

Hai recitato anche nell’ultimo film di un talento nuovo, Sydney Sibilia. La sua è la storia delle cassette “mixed by Erry”, sull’industria di contrabbando di pezzi musicali. Quale ruolo hai interpretato?

FG. “Ho fatto la parte divertente di un milanese manager dal tocco aureo e cinico negli anni ’80.”

Un tuo ruolo diverso è stato ne La belva di Ludovico Di Martino. Potresti parlarcene?

FG. “Nel film c’è un piano sequenza che abbiamo rifatto quattro volte. Sul set avevano chiamato un campione di MMA. In registrazione si è sentito crock, mi era arrivata una capocciata sul naso. Avevo avuto un allenatore per diversi mesi! Non dico molte battute, meno le mani! Ho scoperto la mia passione per le macchine, fare i testacoda. Sono delle sfide anche queste... Ho fatto nel 2022 I viaggiatori con Ludovico Di Martino, un regista pieno di talento. Ho lavorato con più di un regista esordiente. Ludovico era agli inizi. Questo è un film a cui sono legato.” 

Michela Manente