Visconti, l'ultimo dei gattopardi

16/05/2008

“Cosa m’importa se abbiamo vinto in un posto chiamato Custoza quando so che perderemo la guerra e il mondo a cui apparteniamo tu e io scomparirà.....” Franz Mahler, seduttore e disertore, nel momento in cui si svela nella sua meschinità, senza l’alone di “romantico eroe”, rivela anche la propria amarezza di appartenere ad un mondo che volge al declino. Siamo alla scena madre di “Senso”, grandioso affresco risorgimentale, capolavoro assoluto del melodramma: vederlo è come attraversare una galleria di quadri, da Hayez a Fattori. E, giunti al culmine, affiora l’essenza della poetica di Luchino Visconti: nello splendore dell’ultimo ballo del “Gattopardo”, nella morte dei vicoli di Venezia dove il prof. Aschenbach insegue la bellezza irraggiungibile di Tadzio, nella caduta e nel disfacimento malato della famiglia Von Essenbeck, nel folle sogno di Ludwig, Visconti contempla la fine di un mondo, il suo, in cui, aristocratico raffinato e colto, era cresciuto e che sapeva morente. Pur proclamandosi intellettuale di sinistra, poteva far sue le parole del Principe di Salina “Noi fummo i gattopardi, i leoni, e dopo di noi verranno le jene e gli sciacalli”.
Con precisione maniacale Visconti ricostruisce in ogni minuto dettaglio le meraviglie decadenti che colmarono la sua infanzia e le pagine degli autori da lui più amati, da Thomas Mann a D’Annunzio (due soli sogni non riuscì a realizzare: “La montagna incantata” di Mann e “La recherche” di Proust), dona alle visioni femminili il bellissimo volto di sua madre (Silvana Mangano in “Morte a Venezia”), trasmette nella cinematografia la stessa perfezione delle sue regie liriche e teatrali (delle quali non ci restano, purtroppo, che testimonianze fotografiche). Anche l’opera irrompe nei suoi film insieme all’amore per tutte le altre arti: l’inizio di “Senso” con la rappresentazione del “Trovatore” alla Fenice, la gara di lirica di “Ossessione”, la scena nei palchi di “Le notti bianche”, l’amicizia tra Ludwig e Wagner la cui splendida musica commenta dolorosamente l’inseguimento della bellezza da parte del re folle e il suo ostinato rifiuto della mediocrità. Anche l’Aschenbach di “Morte a Venezia” è trasformato da scrittore a musicista, con una strana somiglianza fisica con Mahler, e la musica di quest’ultimo, eletta a colonna sonora del film, ne sottolinea i momenti più alti (il pianto misto a riso di Dirk Bogarde nella piazzetta deserta è una delle cose più belle che il cinema abbia visto). Eppure, straordinariamente, Visconti iniziò nel Cinema come neorealista, anche se a ben guardare, il “neorealismo” di Visconti vibra della sua inconfondibile passionalità. (cfr. il nostro approfondimento)
Un divertimento si concedeva Visconti, quello di fare da pigmalione ai suoi interpreti. Prende un aitante attore d’azione americano, Burt Lancaster, e ne fa un vecchio principe siciliano, incontra uno splendido ragazzo austriaco, Helmut Berger, e lo trasforma in Ludwig di Baviera, gonfio di malanni e solitudine. Un film storico grandioso e potente, della durata di quattro ore, inquadrato come un processo. Lo stesso Berger è un giovane tarato e perverso in “La caduta degli dei”, storia di un nido di vipere sul cupo sfondo del nazismo dove Macbeth e Amleto si mescolano a Wagner e Dostojevski.
Dopo la “trilogia germanica” Visconti si ammala, abbandona le matrici letterarie e gira un film che gli consente di non allontanarsi dall’appartamento romano in cui ambienta la vicenda di “Gruppo di famiglia in un interno”. Il professore interpretato da Burt Lancaster, trincerato nel suo mondo d’arte davanti alla volgare irruenza dei nuovi vicini che lo costringono, suo malgrado, a svegliarsi “da un sonno sordo come la morte”, è forse il personaggio viscontiano più autobiografico. E anche se l’anno dopo girerà “L’innocente”, si può considerare questo il suo testamento spirituale.

Gabriella Aguzzi