Alien: Romulus

04/09/2024

di Fede Alvarez
con: Cailee Spaeny, David Jonsson

Il cinema americano mainstream ha un problema enorme: non riesce più a creare il mito. Sembra che un prodotto statunitense a largo consumo oggi abbia la stretta necessità di legarsi a un brand già esistente o a un personaggio affermato, meglio ancora se legato a un profondo senso di nostalgia. La novità sembra essere fuori da ogni concezione. L’epoca del consumo iperveloce che mastica e risputa ha come prima necessità quella di far convogliare vecchi appassionati e attirare nuovo pubblico allo stesso momento. In questo senso è vitale la figura dell’autore, che in questo rimestarsi di vecchi elementi già consumati ha l’obbligo di fornire una propria impronta e una propria visione al mondo che va a trattare.

Ecco, quindi, che “Alien: Romulus” inizia con la narrazione della vita nelle colonie spaziali, una parte dell’universo degli Xenomorfi che non avevamo mai incontrato prima. La caratterizzazione è quella di un mondo à la Blade Runner: una notte perenne per lo smog che copre il sole, fumi che si alzano dal terreno, polvere e sudiciume, luci artificiali, e una massa di disperati che vagano senza una meta. La storia è quella di Rain (Cailee Spaeny), accompagnata dall’androide difettoso Andy (un sensazionale David Jonsson), che lavora in una miniera della colonia e pensa di avere i requisiti per un permesso che le consentirebbe di evadere da quel contesto di sfruttamento e sofferenza. Per via di necessità materiali, però, non le viene concesso l’allontanamento. Viene avvicinata dall’ex fidanzato Tyler che, insieme ad altri, sta pianificando di impadronirsi di un’astronave abbandonata per dirigersi su Yvaga, pianeta indipendente con condizioni di vita migliori.

È l’Alien della generazione degli adolescenti contemporanei. I protagonisti sono tutti giovanissimi e, così come i loro coetanei, non sembrano conoscere l’imperfezione. In un mondo di fatica, sudore, smog e sporco, i volti e le apparenze dei protagonisti sono fin troppo curati. Non si vedono occhiaie, denti sporchi, cicatrici o bende. Una mancanza rispetto alla caratterizzazione pur interessante del contesto iniziale del film, aiutata da una direzione ispirata e un comparto tecnico notevole. La parte più interessante del film, di fatti, è soprattutto la prima. Dal momento in cui questi ragazzi partono e riescono a impadronirsi dell’astronave abbandonata, rientriamo nel vecchio schema tipico dei film Alien ormai usurato: si scatena la minaccia; il gruppo deve difendersi; parte la caccia al mostro. Le vicende all’interno dell’astronave non hanno nulla di nuovo da dire. 

È paradossale che un film dove i protagonisti sono dei ragazzi – la gioventù, il nuovo, l’inedito – si faccia così tanto affidamento su paradigmi e stilemi già consolidati. È sempre bello vedere lo Xenomorfo che si sveglia, ma qui siamo lontani dalla svolta esistenzialista di Ridley Scott in “Prometheus” e “Covenant”, o dall’impronta piena di azione fantascientifica piena di cura estetica di James Cameron in “Aliens – Scontro finale”. Si scade inoltre nella mancanza di gusto più profonda, quando il volto di Ian Holm viene ricostruito digitalmente, posto sul corpo di un nuovo personaggio con la stessa funzione dell’androide Ash del primissimo capitolo del 1979 (interpretato dallo stesso attore ormai defunto).

Persino i mostri sentono la stanchezza degli anni. I “facehugger” (la fase embrionale del mostro alieno che depone le uova nel corpo ospitante) non sono più così letali. Mancano spesso il bersaglio, o non riescono a fecondarlo. Vi sono forzature di scrittura abbastanza importanti, così come un allungamento eccessivo del falso finale che non fa altro che prendere a piene mani dal quarto capitolo della saga principale. Ad esempio, risulta poco credibile l’idea di annullare la forza di gravità per impedire al sangue degli alieni che i ragazzi stanno combattendo, fatto di acido, di corrodere il pavimento della nave creando un varco con lo spazio esterno. L’acido fluttua immobile a mezzaria, consentendo ai personaggi di spostarsi e superare l’ostacolo. Non è chiaro il motivo per cui l’assenza di gravità debba impedire a un fluido di spostarsi e raggiungere le altre pareti.

Un’occasione sprecata, bilanciata dalle poche aspettative di chi vi scrive. La visione intrattiene e non lascia scontenti, ci si lascia sorprendere dalla prima ora dell’opera e si rimane affascinati dall’intensità estetica di alcuni momenti, dall’interpretazione degli attori, e dall’evoluzione del personaggio di Andy.

Voto: 5,5

Edoardo Cappelli