
Innumerevoli opere potenzialmente pregevoli sono state rovinate dall’elefantiasi delle ambizioni artistiche degli autori, non solo in ambito cinematografico.
Nel campo musicale, per offrire un esempio, un capolavoro di misura come “Pink Moon”, album meraviglioso di Nick Drake che non arriva alla mezz’ora di durata, avrebbe potuto rappresentare un modello da seguire per gli Hüsker Dü, che invece nel loro fluviale “Zen Arcade” si sbrodolarono con pezzi anche lunghissimi, facendo perdere vigore e intensità a un disco non eccellente quanto lo sarebbe diventato se sforbiciato a dovere.
Chazelle commette lo stesso errore. Dopo un inizio e una prima parte fulminanti, con una centrifuga di atmosfere tra lo scanzonato, il visionario e il beffardo che potrebber far pensare a una sintesi sapiente di Lynch, Tarantino, Mel Brooks, Tinto Brass (!), Fellini e delle pellicole dei fratelli Coen, il suo “Babylon” comincia a sfilacciarsi.
Peccato, perché la storia non è banale, e la recitazione di Brad Pitt, Margot Robbie e Diego Calva, interpreti dei personaggi principali, è convincente, anche se talvolta sopra le righe (tra le tante sequenze discutibili, lo sfogo finale dell’attricetta contro l’élite dei salotti hollywoodiani, anche se la scena può richiamare alla memoria un momento indimenticabile dello “Stand By Me” di Stephen King/Rob Reiner).
Il regista tributa un omaggio sincero all’epoca del muto, alle difficoltà create dall’avvento del sonoro (significative le riprese estenuanti inflitte alla troupe all’interno di un teatro di posa), e al potere incantatore del cinema, con un tono ora elegiaco, ora enfatico.
Meno interessanti, perché meno originali, gli altri temi affrontati, tra cui la brama di successo come rivalsa a una vita difficile, la fugacità della fama (transitoria, perché il pubblico è pronto a voltare le spalle a ciò che prima adorava), e la necessità di scendere a compromessi imposti dalla “macchina” hollywoodiana, con i suoi meccanismi che rendono gli attori marionette usa e getta.
Di dubbio gusto, perché artificiosa, l’esibizione compiaciuta della dissoluzione legata all’ambiente del cinema narrato da Chazelle (le brevi scene orgiastiche paiono abbastanza gratuite), e soprattutto, nella seconda parte del film, un lungo episodio che conferisce inquietanti sfumature horror, del tutto fuori luogo nell’intreccio (non spiazza lo spettatore, lo fa innervosire).
Troppo prolisso, insomma, “Babylon” da intrigante si trasforma, durante la visione, in un’opera estenuante. (Mezzo voto in più per la bravissima Margot Robbie che, per quasi tutto il film, truccata com’è ci ha ricordato la Olga Karlatos di “Zombie 2”)
Voto: 7
Andrea Salacone

Los Angeles, 1926: il messicano Manuel Torres (Diego Calva, che scoperta!) lavora come tuttofare per le Major di Hollywood ma sogna di lavorare sui set. A una festa orgiastica dove ha portato, come attrazione principale, un elefante, conosce Nellie LaRoy (Margot Robbie, ma quando la smette di migliorare?), aspirante attrice disposta a tutto pur di farsi notare. L’occasione per lei arriva poco dopo quando viene scritturata al volo in sostituzione di una comparsa che è vittima di un brutto incidente durante la sfrenata baldoria; Manuel, invece, conosce il divo del cinema muto Jack Conrad (Brad Pitt, gallina vecchia…) e, per averlo scortato a casa poiché incapace di guidare a causa di una pesante sbornia, ne diventa amico e collaboratore durante le riprese. I sogni dei due giovani sembrano quindi essersi realizzati, ma pochi mesi dopo esce al cinema “Il cantante di jazz”, primo film sonoro della storia, e Hollywood viene scossa nelle fondamenta…
Una curiosità prima di cominciare: l’idea di “Babylon” a Damien Chazelle è venuta quando il regista di Provicence ha letto alcuni dati sull’alto numero di suicidi nello showbiz losangelino degli anni Venti, e ha allora indagato un po’ in merito. È così che è germogliato il progetto più audace e ambizioso del regista di quei gioielli intitolati “Whiplash” e “La La Land”, un esaltante affresco corale che abbraccia alcuni anni di attività hollywoodiana con parentesi finale spostata molto più avanti nel tempo.
Si nota presto come Chazelle abbia riletto fatti di cronaca e costume realmente accaduti (dalla tragedia Rappe-Albuckle del 1921 alle vicende di Clara Bow negli studi di registrazione) consegnandoli alle pedine del suo scacchiere per smascherare il lato più oscuro della settima arte, una pagina di storia cinematografica spesso solo abbozzata e comunque molto edulcorata, e per questo ignorata da gran parte dei non addetti ai lavori. Damien lavora coi fidi Justin Hurwitz alla colonna sonora e Linus Sandgren alla fotografia, la prova pazzesca dei quali incornicia al meglio una grandiosità totale di mezzi, luoghi, personaggi e situazioni, in cui l’estremo è dipinto come pane quotidiano, dove feci e alcol, banconote e baci lesbo, serpenti e orge, criminali e conati di vomito si mescolano in un pastiche di generi girato con spudorata personalità, tra splendida musica jazz e deliziosi piani sequenza.
“Babylon” si iscrive alla cerchia dei ‘film sui film’ ponendosi come prequel di ognuno di questi, un po’ come “Gangs of New York” fece, a suo tempo, per le opere di genere gangster; è proprio a Scorsese che Chazelle sembra rifarsi, non solo quando la pellicola vira sulla tragedia alla “Casinò” ma già da prima, mentre gli echi del romantico metacinema del più recente Tarantino conoscono la grottesca ironia di “The Wolf of Wall Street” (ma anche la collettività di Altman e l’orgia sociale di Fellini). È vero che in sceneggiatura scarseggiano un po’ frasi e dialoghi davvero degni di essere memorizzati, ma questa caratteristica, insieme all’andirivieni di personaggi che ora ci sono e ora no, è in realtà il perfetto ritratto di un’epoca folle e sregolata, dove tutti hanno voce in capitolo ma nessuno viene concretamente ricordato se non nel futuro, come dice la giornalista a Jack Conrad in uno dei momenti-clou del film.
“Babylon” esce forse in un periodo sbagliato, perché il moralismo di oggi non può certo farla passare liscia a un lavoro così deliziosamente sfrontato e graffiante, difatti la critica americana ha optato per prenderla sul personale. Chazelle ha dichiarato che il suo unico interesse in merito è che il film faccia discutere, e in questo intento sicuramente non fallirà, perché saprà dividere: questi 189 minuti di durata sono un interminabile minestrone di omaggi e oltraggi o rappresentano la più grandiosa opera allucinata di un regista che sembra non temere nulla, neanche di far apparire il titolo dopo mezz’ora di immagini, per varie ragioni, scioccanti? Vale la pena propendere per la seconda ipotesi.
Voto: 10
Matteo Tommasi