L'ultima luna di settembre

20/09/2023

di Amarsaikhan Baljinnyam
con: Amarsaikhan Baljinnyam, Tenuun-Erdene Garamkhand, Damin Sovd, Davaasamba Sharaw, Tserendarizav Dashnyam

Film incantevole, girato con stile dimesso e al contempo animato da sobria e delicata poesia, “L'ultima luna di settembre” è imperniato sul tema della relazione. Ci sono legami sciolti e poi spezzati, malgrado un vincolo emotivo che riaffiora e si ristabilisce, anche se troppo tardi. Altri rapporti sono trascurati, e il bisogno di affetto inizialmente provoca diffidenza; atteggiamento che, però, si trasforma in una disperata necessità di amore.    

C’è l’idea di paternità, una condizione perduta e per certi versi ritrovata, benché in forma diversa. 

Non di minore importanza il contrasto tra la città ‒ spazio (poco citato, ancor meno mostrato) degli impegni e degli obblighi da assolvere che distoglie dalla sfera emozionale ‒ e i territori montani della Mongolia. Ambienti, questi ultimi, in cui la natura è incontaminata, e dove il progresso pare stentare ad arrivare (il segnale a malapena sufficiente a comunicare telefonicamente, in scene che richiamano alla memoria “Il vento ci porterà via” di Abbas Kiarostami); dove si conduce un’esistenza faticosa, appartata e spartana, ma caratterizzata da ritmi più lenti, rapporti schietti e calore umano. 

Suggestive le numerose sequenze che fanno abbracciare con lo sguardo i paesaggi montani, la vastità del territorio, e i momenti di vita quotidiana accanto alle iurte (le tende di forma cilindrica in cui abitano i locali), e quelle che mostrano la solitudine dei personaggi, e i silenzi che accompagnano parte delle loro giornate. Immagini che non evocano desolazione, e che contribuiscono ad accrescere il fascino dell’opera di Amarsaikhan Baljinnyam. Molto bravi gli attori. 

Un gioiellino da vedere con sollecitudine prima che sparisca (temiamo rapidamente) dalle sale.

Voto: 8

Andrea Salacone

Una storia antica e moderna, in cui si parla di un digitale ultramoderno che unisce e di una meccanica tradizionale che, invece, tradisce. Non poteva ritrovarsi se non nella culla dell’umanità ciò che la modernità ha fatto scomparire con la sua pretesa di rendere tutto universale, negando il mistero del mito e delle tradizioni ancestrali. L’attore mongolo Amarsaikhan Baljinnyam (nella parte del protagonista Tulgaa), alla sua prima regia con il film “L’ultima luna di settembre”, dal 21 settembre nelle sale italiane, ci parla di padri e figli in un modo diametralmente opposto al nostro metodo pedagogico, ipocrita e consumista al quale siamo ormai da troppo tempo abituati. Qui non ci sono genitori che assicurano ogni tipo di beni materiali ai propri figli pur di essere affrancati dalla responsabilità di educare, affidandone il compito ai social e alla società dei pari. Loro, infatti, i preadolescenti di oggi della globalizzazione, sono fin da piccolissimi affidati alle cure idiote, ripetitive e lobotomizzanti di devise digitali. Invece lì, negli sconfinati orizzonti mongoli, dove la natura obbliga a una fatica che dura tutta una vita per assicurarsi con il duro lavoro soltanto la sopravvivenza, il rapporto genitori-figli è materializzato e cadenzato dalle cose da fare. Come tagliare il fieno per avere di che nutrire gli animali domestici nei lunghi inverni; portare al pascolo il gregge svegliandosi all’alba e accontentandosi di un pasto frugale, consumato in piena solitudine, con lo sguardo che si perde in paesaggi mozzafiato senza anima viva nei dintorni; raccogliere e tagliare la legna; prelevare l’acqua da un pozzo distante per le esigenze domestiche e degli animali da accudire. 

Il protagonista del film è Tulgaa che, per sfuggire alla miseria e alla fatica, ha lasciato suo padre molti anni prima per andare a stabilirsi in città, diventando cuoco in un hotel a cinque stelle. E fin dalle prime battute del film, il personaggio principale ci appare ossessionato dal suo rifiuto della paternità e delle responsabilità relative, aspetto quest’ultimo che non lo abbandonerà mai fino alla fine. Ed è lui, nel pieno tormento di una sua storia amorosa che gira male, a ricevere un giorno la chiamata dalla sua terra d’origine, per tornare ad accudire il vecchio padre ormai in fin di vita. In quei suoi gesti lenti e solenni di figlio devoto, avari di parole mentre deterge con un asciugamano umido il suo padre anziano e gli prepara un pasto caldo all’interno della sua povera capanna, passa il messaggio di sublime pietas rivolto a un Occidente che ha medicalizzato le fasi finali della vecchiaia, confinandola in luoghi estranei, chiusi e appartati per nascondere agli umani la vergogna della morte. Nel mondo del padre di Tulgaa non ci sono case, ma iurte, che si piegano e si trasportano sul dorso dei cavalli a fine stagione e colline da addomesticare, falciando per la scuola agraria il fieno che cresce alto e rado, prima che cali l’ultima luna di settembre. Obbligazione paterna che il figlio decide di rispettare come un’eredità scomoda, rinviando la partenza fino alla fine del raccolto, che sarà garantito dalle sue braccia forti e giovani. Ed è nel pieno di quella fatica, in cui Tulgaa rischia la disidratazione per eccesso di concentrazione, che si vede offrire con gentile ironia un otre di acqua potabile da Tuntuulei, un bambino di dieci anni straordinario e bellissimo, senza padre e affidato alle cure degli anziani nonni materni, che compare come per incanto sulla scena della mietitura in sella al suo cavallo. 

Da qui, dopo un breve sequenza di alternanza tra odio e amore, matura tra le righe un vero e proprio rapporto filiale tra i due, coronato da una solida amicizia tra contadini, come accade fra i nonni di Tuntuulei e Tulgaa. Con grande abilità (arida di parole, sostituite dagli sguardi intensi e dalle espressioni fortemente marcate dei volti in primissimo piano), il regista unisce, non senza una palese sofferenza interiore,  i due perni della tradizione mongola. La vecchia generazione, cioè, transita per quelle nuove di Tulgaa e Tuntuulei, ben sapendo che nessuno di questi ultimi due manterrà il patto ancestrale di resilenza con quella loro terra natale, dura, bella e aspra, perché il mostro dello sviluppo globale che avanza sta rapidamente divorando anche quegli sperduti campi mongoli, estraendo dal cuore della terra il meglio della loro gioventù. La tradizione e il folklore mongoli non possono più reggere, infatti, alle condizioni dure che le hanno mantenute vive nei millenni. Ma il film vuole comunque lenire per un tempo breve questa tragedia del distacco, creando una temporanea ed effimera cesura tra il vecchio e il nuovo, pur nella sua atroce discontinuità. All’urbanizzato (per necessità, ma non pentito) Tulgaa, i nonni materni saranno felici di affidare il loro nipotino, prima che anche per lui si giochi il perfido destino del distacco, dato che di lì a breve l’analfabeta Tuntuulei dovrà essere affidato alle cure di sua madre che abita in città. 

Per un breve tratto del racconto, le tre generazioni trovano una saldatura accanto a danze tribali, cibi dimenticati e solennità della parola data, con Tulgaa che accompagna il delizioso bambino nel coltivare i suoi sogni e la passione sportiva di giovane lottatore. E, poiché non c’è segnale per i cellulari e l’unica soluzione per avere un minimo di campo è catturare l’onda in piedi sulla sella del cavallo, issando al cielo una lunga pertica alla cui cima è annidato un vecchio cellulare di prima generazione, sarà proprio Tulgaa a trovare una soluzione geniale che consentirà alla piccola comunità locale di parlare con i propri cari lontani. Poi le ali si apriranno e i giovani uccelli torneranno a volare lontani dai loro nidi prendendo due direzioni diverse.

Voto: 9

Maurizio Bonanni