Cosa sei disposto a fare per raggiungere i tuoi obiettivi, affinché tutti ricordino il tuo nome? Fino a dove sei disposto a spingerti per ottenere la vita che tu pensi di meritare?
Dopo “X” e “Pearl” (entrambi del 2022), “MaXXXine” conclude la delineazione dell’universo di Ti West, focalizzandosi sull’ossessione dei “quindici minuti di celebrità” che avvelenano l’umanità. La protagonista Maxine Minx (una stupenda Mia Goth) vuole emergere dal mondo del porno per entrare nel “cinema vero”, al fine di raggiungere l’apice della notorietà in una Hollywood sporca e oscura. Riesce a ottenere il ruolo di protagonista in un film horror di serie B diretto dall’ambiziosa regista Elizabeth Bender (Elizabeth Debicki), voce femminile fuori dal coro in una Los Angeles fatta di pura apparenza, e che mira a scuotere le fondamenta dell’industria. Le vicende di Maxine si intrecciano con degli omicidi in città le cui vittime sono giovani lavoratrici dell’intrattenimento per adulti. I crimini sono opera del “Night Stalker”, nome inventato dai media che appaiono essere affamati di attenzione e notorietà tanto quanto i protagonisti del film. Nel mentre, Maxine viene avvicinata da un investigatore privato (Kevin Bacon), che la segue costantemente senza rivelarle chi sia il suo mandante, minacciandola poiché entrato in possesso del film porno che lei e i suoi amici avevano girato sei anni prima, nelle vicende di “X”, lasciandole intendere di essere a conoscenza degli omicidi che ebbero luogo quelle notti.
Se nei film precedenti veniva dato molto spazio al tema della rivendicazione di libertà personali, precluse a una generazione di persone che in passato hanno dovuto mettere da parte le proprie ambizioni per via di costrutti culturali oppressivi (riversando questo loro rancore su una gioventù persa e cinica, ma apparentemente libera), “MaXXXine” rimane centrato sull’ambiente hollywoodiano e le sue contraddizioni. La regia di West usa molte ambientazioni iconiche della città degli angeli, strade notturne illuminate dal neon, folle perse in una metropoli che vende sogni ma è totalmente incapace di mantenere fede alle promesse propagandate. L’umanità che popola il film è quella di regolari frequentatori di locali di strip sudici e malmessi, persone totalmente indifferenti all’altrui sofferenza e piccole bolle di comunità che tramano nell’ombra, compiendo atrocità in nome di un bene superiore. Non mancano i primi piani ripresi da angolazioni innaturali e le ampie vedute sulla scena, a sottolineare la perdita di direzione all’interno di un contesto che non offre salvezza. In questo senso, il film sembra inscriversi perfettamente nel filone di un cinema thriller-horror anni ’70-‘80 in cui Los Angeles è vera protagonista, e di cui molti autori contemporanei hanno offerto una loro versione attualizzata (non ultimo Tarantino col suo “C’era una volta a Hollywood”). A confermare questo legame col mondo cinematografico passato troviamo di fatti moltissimi rimandi ai classici dell’horror. Mario Bava e Dario Argento, ad esempio, sono citati moltissimo, ma non mancano i palesi rimandi a Hitchcock o Polanski. A volte queste citazioni sono funzionali alla narrazione (ad esempio, il rumore degli abiti di pelle dell’assassino che si muove lentamente nell’ombra, elemento tipico del lavoro argentiano); altre volte, sovraccariche in numero e frequenza, sembrano semplicemente una ricerca di complicità con lo spettatore.
Nota positiva è l’utilizzo di effetti speciali analogici e fisici che, sacrificando un po’ di credibilità visiva, forniscono sempre un’ottima resa di presenza del materiale in scena soprattutto nelle scene più sanguinolente. Ciò è favorito anche dall’uso sapiente della luce da parte di Eliot Rockett, riconfermato nel sodalizio col regista, in cui tagli di luce artificiali rimandano alla falsità dell’ambiente in cui la storia ha luogo. Il forte contrasto tra colori accesi e ombre nerissime comunicano l’onnipresenza del male, come da tradizione.
Nonostante ciò, occorre sottolineare la mancanza di due elementi dal punto di vista narrativo: in primis l’orrore non è mai veramente presente, al netto di qualche scena piena di tensione ben costruita (così come l’eros che sembra essere solamente un elemento di contorno alla contestualizzazione della storia); e la coesistenza di moltissimi personaggi coinvolti in svariate dinamiche fa sì che molti di questi vengano lasciati a loro stessi durante la progressione della trama, facendo perdere al film quell’elemento di coesione che era centrale negli altri due lavori. Inoltre, si perde la forza della protagonista, la quale in molte parti del film è vittima degli eventi e sviluppa la propria personalità in base alla forza dei personaggi che la contornano. Il risultato è un’erosione dell’anima simil-femminista che abbiamo respirato in tutte le opere della trilogia. Ciò è particolarmente vero nel finale: se da una parte viene offerto un interessante spunto sulla malata voglia di stare sotto i riflettori – anche da parte di coloro che si presentano come antagonisti della società della vuota apparenza – allo stesso tempo Maxine diviene l’ennesima principessa da salvare nel castello.
Voto: 6,5
Edoardo Cappelli