John Carpenter: L’orrore del consumismo

20/01/2021

A chiunque stia leggendo questo articolo e creda di non aver mai sentito parlare di Carpenter, vi informo che quasi sicuramente siete in errore. Il regista di Carthage è stato così abile, durante tutta la sua carriera, a mescolare generi e intagliare personaggi iconici, che anche qualora non si sia visto neanche uno dei suoi film, inevitabilmente si sarà entrati in contatto con alcuni elementi pop derivati dall’essenza fortemente cult che vari suoi lavori hanno assunto. Possiamo partire citando l’estrema popolarità che ha raggiunto il personaggio di Michael Myers e il film “Halloween” (1978). Avete mai giocato a Metal Gear Solid (capolavoro videoludico della prima PlayStation)? Il protagonista della serie, Snake, è un ricalco di Snake Plissken, protagonista di “1997: Fuga da New York” (1981). Avete presente la frase “Sono nato pronto”, pronunciata da chiunque voglia mostrarsi sprezzante di fronte al pericolo, nei confronti di una situazione tesa? Proviene dalla sceneggiatura di “Grosso guaio a Chinatown” (1986), che ha gettato le basi per l’estetica di molti personaggi di un’altra serie videoludica di fama mondiale, ovvero Mortal Kombat. Potrei continuare per ore.

Carpenter rimbalza da sempre sulle bocche di qualsiasi appassionato di cinema. I motivi sono molteplici, in questa sede ne discuteremo solo alcuni. Il primo è sicuramente l’assoluta indipendenza e l’aura da ribelle che il Nostro si è sempre portato dietro. I conflitti con le case di distribuzione e i produttori di Hollywood, così come alcuni vari flop al botteghino che hanno causato perdite economiche ingenti, non hanno mai fermato il regista dal mettere in pratica una forma autentica della propria idea di cinema, senza compromessi e senza peli sulla lingua. Questo a costo della continuità lavorativa (Carpenter non vede un dollaro dal 2010, anno del suo ultimo film). Dal momento in cui i rapporti con le major si erano sgretolati, non ha esitato a rivolgersi a metodi di produzione indipendenti, che gli permettessero di scrivere e girare ciò che voleva. È per questo che i suoi film sono pregni di elementi estremi, ma comunque contestualizzati, o di compresenze atipiche di vari generi che tuttavia riescono ad accendere quelle emozioni di paura e shock volute dall’autore. “Grosso guaio a Chinatown”, per esempio, rimane pur sempre una commedia d’azione, ma non si possono ignorare le forti influenze del retaggio western à la Howard Hawks o dei grandi classici della Golden Age Hollywoodiana, gettati nella mischia insieme a elementi orientali anticonvenzionali di stampo “kurosawaiano”, che fanno coesistere componenti soprannaturali di demoni e poteri mistici con la quadrata messa in scena e l’estetica eccessiva tipica degli anni Ottanta, rivoluzionati da pellicole di intrattenimento epiche e futuristiche (George Lucas e Steven Spielberg imperavano in quegli anni). Ne risulta qualcosa di fortemente barocco e tamarro, all’apparenza, ma che non può far altro che attrarre per la totale libertà di espressione e la cura dei dettagli formali che nasconde. A proposito, se avete visto “Kill Bill” di Tarantino, fatevi un giro su “Grosso guaio a Chinatown”, rimarrete sorpresi.

Carpenter svetta per un utilizzo dei colori violento e d’impatto. Fondamentale è il ruolo del rosso, colore del sangue e delle passioni più voraci dell’uomo. La fotografia è funzionale all’intera riuscita dei film, e permette di calarci in atmosfere che altrimenti non potrebbero mai coinvolgerci, vista la mancanza di malizia del pubblico contemporaneo, abituato ormai a tutto. Ciononostante, come già accennato, quello che caratterizza le pellicole di Carpenter è l’uso magistrale della tensione, che prende a piene mani da Hitchcock, ad esempio, nelle scene che avvengono in pieno giorno, rivoltando i canoni classici dell’horror; e Romero, per la condizione di minaccia che proviene dall’ignoto. In questo non possiamo non citare le colonne sonore dei suoi film, spesso composte da Carpenter stesso. Note secche che si ripetono all’infinito e synth rudimentali. I suoi primi lavori, quelli girati fino alla prima metà degli anni Ottanta, emergono esattamente per queste caratteristiche. Pellicole destinate a rivoluzionare il genere, sotto vari aspetti. “Halloween”, con le sue carrellate in steadycam e i suoi contrasti di luce, ci apre le porte a un mondo represso, intrinsecamente psicoanalitico, dove la repressione sessuale e la ritualità dei rapporti umani fanno nascere il mostro, che in realtà è il più umano tra i demoni. Carpenter ci invita qui ad assumere il punto di vista dell’assassino, malato e solitario. Vengono utilizzati quasi sempre spazi angusti da cui i protagonisti devono fuggire, o nei quali vengono assediati dall’esterno. Il regista riflette continuamente sul ruolo del luogo nelle vicende umane: la metropoli, l’agglomerato urbano rielaborato in salsa noir, dove la minaccia non ha volto, come in “Distretto 13 – Le brigate della morte” (1976), o in intere città divenute prigioni a cielo aperto, dove ogni sopruso è concesso, come in “1997: Fuga da New York” (1981), e anche in “La Cosa” (1982), dove seppur con salsa più fantascientifica, l’ambientazione diviene essa stessa nemica dei protagonisti, ostacolati dal clima artico e dalla neve glaciale che li circonda. Protagonisti eterni perdenti che si dimenano in un mondo che non conoscono, perché quest’ultimo nasconde loro ogni tipo di informazioni necessarie a una sopravvivenza dignitosa, sia prima che i fatti accadano, sia a orrore compiuto. Questo ci introduce nell’aspetto più interessante della poetica carpenteriana: la politica.

Gli anni Ottanta rappresentano il trionfo del neoliberalismo. Le nuove politiche economiche trovano in Ronald Reagan e Margaret Thatcher (Presidente degli Stati Uniti e Primo Ministro inglese, rispettivamente) i loro maggiori esponenti. Viene smantellato il sistema di stato sociale che era esistito fino ad allora per incentivare l’iniziativa privata e il cosiddetto “trickle down”, l’idea economica per cui favorendo le entrate dei ceti più abbienti, l’intera società ne beneficerà grazie ai successivi investimenti e maggior ricircolo di denaro. È negli anni Ottanta che, soprattutto nel mondo occidentale, il consumismo raggiunge il suo picco massimo. I beni di lusso divengono disponibili a tutti, e definiscono lo status e l’identità delle persone, che si barcamenano unicamente alla ricerca dell’accumulo di denaro al fine di soddisfare bisogni indotti dalle pubblicità. A partire da “Fog” (1980), Carpenter comincia a raccontare l’America dal punto di vista di qualcuno che rifiuta l’assolutismo capitalista e consumistico che caratterizza il paese. È soprattutto in “Christine – La macchina infernale” (1983) e in “Essi Vivono” (1988) che la narrativa di denuncia di Carpenter trova il suo massimo splendore. I demoni che si annidano tra noi sono sempre poco riconoscibili, identificabili solo tramite un punto di vista ulteriore, da outsider. Entità maligne che sfruttano il desiderio di possesso e potere che risiede nel cuore degli uomini, e che li invitano a sottomettersi attraverso la concessione di benessere fine a sé stesso. Una macchina che aumenta la fiducia e la spavalderia di un ragazzo impacciato si rivela essere un orpello di morte. La comunità in cui viviamo è stata infiltrata da esseri che ne pianificano la distruzione nell’ombra. La critica al consumismo continua anche in quelle opere che più di altre racchiudono le caratteristiche di Carpenter a pieno, “Il Signore del Male” (1987) e “Il Seme della Follia” (1994). Nel primo la religione è una palese bugia atta a nascondere agli uomini una crudele verità (il film è metafisico, ma pieno di riferimenti scientifici che costituiscono una novità in pellicole simili), mentre nel secondo viene presa di mira la mercificazione dell’arte ad ogni costo, dove produttori e finanziatori impongono diktat agli autori, opprimendoli e provocandone la pazzia. Inutile sottolineare la similarità di questa storia con il trascorso del Nostro con le case hollywoodiane.

La mancanza di possibilità lavorative per un artista rinnovatore come è stato Carpenter simboleggia tutt’oggi una delle ingiustizie più grandi dell’industria cinematografica mondiale. L’anticonformismo sempre presente e le spiccate capacità narrative ed estetiche si sposano con un’idea di Male che inquina l’animo degli uomini, prima ancora che mettere paura attraverso la disposizione su schermo di scene orrorifiche o cruente. A metà tra lo sfavillio del cinema tecnologico d’intrattenimento e la crudezza della Nuova Hollywood anni Settanta, genitore di un cinema che usa la tradizione e l’innovazione per metterci davanti l’eterna angoscia esistenziale degli esseri umani. Angoscia che non può essere risolta col miglioramento di uno status sociale intrinsecamente legato alla relegazione di un’intera parte di umanità nel dimenticatoio.

Edoardo Cappelli