DarkPlay

29/10/2015

Restano solo pochissimi giorni (fino al 1 novembre) per assistere a un altro egregio spettacolo sperimentale messo in scena presso il Teatro Trastevere a Roma. Stiamo parlando di “DarkPlay”: un provocatorio esperimento noir tra teatro, cinema e multimedia, con la regia di Matteo Fasanella. Trattasi di una occasione da cogliere al volo, giacché “DarkPlay” si attesta come una delle migliori piccole produzioni degli ultimi due anni sui palcoscenici capitolini.

Ottime le scenografie di Paolo Carbone (due volte vincitore Premio Vincenzo Cirami) e davvero buona la recitazione di tutto il cast, che contribuisce in modo corale alla riuscita della pièce. Spicca tra tutti quella di Riccardo Eggshell, nei panni di Edward, il quale termina lo spettacolo visibilmente provato, a dimostrazione della intensità profusa, e non solo da lui, ma da tutti gli attori, durante l'interpretazione. Da segnalare poi la partecipazione straordinaria come “voce off” del celebre doppiatore Ennio Coltorti.
 
“DarkPlay” è in definitiva un progetto sperimentale ben riuscito che unisce teatro e cinema, con multimedia e live streaming, nel quale si affresca uno spaccato delirante, estremo e frenetico di una Hollywood priva di lustrini e dove le costanti sono l'alcol, la droga e le sigarette (tante) fumate veramente sul palcoscenico.
“Che cosa mi appartiene?”, questa è la frase ripetuta ciclicamente da Edward, alla quale nessuno sa dare una risposta; anzi, sembra quasi che tale interrogativo dia persino fastidio agli altri personaggi, andando a intaccare una onnipresente comicità “tarantiniana”, con la sua tipica logorrea sardonica, densa di riflessioni sui più svariati argomenti, simile a una pioggia di meteoriti che si abbatte sul pubblico, facendo così scivolare via due ore senza nemmeno accorgersene.

Una opera accattivante e originale dall'inizio alla fine, completa, sia dal punto di vista formale che contenutistico. Essa è suddivisa in due atti: il primo ironico; il secondo colmo di disperazione, però non banale. Ovvero, non si tratta di una naturale conseguenza della follia che connota le vite dei protagonisti. Infatti, il sarcasmo che caratterizza l'inizio della storia altro non è che quello specchio deformato, tipico del mondo dello spettacolo, dove sotto i soldi, i tanti bagordi e i piaceri della carne, si nascondono le paure più oscure; quel tetro angolo dell'animo umano moderno così ben descritto in quel capolavoro letterario che è “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad.  

Fasanella è assolutamente debitore della “Lezione Americana”, in primis  proprio quella di Quentin Tarantino, rielaborata comunque in modo consapevole, senza quegli inutili “scimmiottamenti” che contraddistinguono i numerosi epigoni del cineasta italo-americano.  Fasanella dimostra inoltre una ottima maturità alla regia, nonché una spiccata inclinazione verso la sperimentazione, specialmente per quanto concerne un sapiente utilizzo di tutto la spazio scenico, platea inclusa. La sua storia presenta vari momenti di tensione – qualità assai rara nel teatro di oggi – con persino diversi episodi di contatto fisico tra gli attori, per non parlare del molto sesso, gestito però in modo coerente con tutto l'impianto narrativo, che scandisce la rappresentazione. A tal proposito, qui i personaggi femminili sono sì parte integrante dell'opera, rimanendo tuttavia “accessori”, come delle inquietanti ombre sullo sfondo di un dramma collettivo quasi invocato, specialmente da parte di Edward, a mo' di catarsi. Infine, i passaggi più emotivamente alti della storia ricordano, benché da lontano, lo stile di Raymond Carver, con delle interazioni serrate, intime, blandamente poetiche.

“DarkPlay” è uno spettacolo metafilmico; uno spaccato della  dissolutezza della “Hollywood Oscura”. Un lavoro teatrale scritto bene, con un ragionamento che mira a integrare molteplici piani del racconto. Talvolta, seduti in poltrona non ci si sente più in una sala in cui si muovono attori in carne e ossa, bensì davanti a uno schermo cinematografico. Buffo davvero che una pièce ambisca a narrare il cinema da dentro, come il fatto che lo stesso regista interpreti uno dei ruoli principali, per non parlare del brillante spunto conclusivo. “Che cosa mi appartiene?”, alla fine nulla, eccetto la finzione di quel cine-teatro magistralmente orchestrato da Fasanella. Abbiamo detto “Metafilmico” e “americano” … certo, ma pur sempre nel rispetto delle “Maschere nude” tanto care al nostro Luigi Pirandello: volti posticci, per coprire vite frantumate; una pura constatazione sulla vacuità della esistenza nella società odierna.

Riccardo Rosati