Uscito
nelle sale da poco più di una settimana,
Gomorra di Matteo Garrone si è
rivelato il vincitore assoluto nella guerra del
box-office: con quasi due milioni di spettatori
nel solo week-end del 18/05, Gomorra batte tutti, dai blockbuster hollywoodiani ai
piccoli film indipendenti impreziositi da qualche
grande star (si veda In Bruges, con Colin
Farrell). E c’è la speranza che,
dopo il Gran Premio della Giuria assegnatogli
ieri a Cannes, le visioni di Gomorra raddoppino, triplichino, decuplichino: perché
il film di Garrone va visto, da tutti –
e non solo perché, notazione fin troppo
semplice in periodi di battages pubblicitari agguerriti,
ha un valore politico e sociale di prima grandezza.
No: l’opera terza di Matteo Garrone va vista
in primo luogo per se stessa, perché è
un esempio di grande cinema, non solo italiano
ma tout court.
Gomorra è un film magmatico, senza
un inizio, un centro e una fine: contravviene
alle norme di sceneggiatura classica, non si concede
Spannung di facile emotività e sfugge,
soprattutto, alla retorica scontata del film a
tesi. Episodico non per vocazione ma per necessità,
corale come i grandi affreschi altmaniani, Gomorra si snoda lungo sentieri che verrebbe facile definire,
di volta in volta, pasoliniani, scorsesiani o
con qualunque altro aggettivo cerchi d’accostare
questo film ad altri presenti nella memoria cinematografica
dello spettattore: è operazione sterile
ed inconcludente, perché Gomorra è un’opera nuova, di rottura, un
film che – ha ragione Sean Penn –
resterà nel tempo.
Nelle mani di un altro regista, forse, il film
sarebbe diventato niente più che l’epigono
d’un certo cinema italiano, si pensi a Mery
per sempre o Ragazzi fuori, che
cerca di scandagliare gli abissi sociali con occhio
morale quando non, peggio, moralista. Ma Garrone
– che s’impone ormai come il regista
più adulto, maturo e autoriale d’Italia,
con Emanuele Crialese – fa della a-moralità
la cifra costitutiva del suo sguardo filmico:
il suo è un occhio offeso perché,
per dirla con Vittorini, è il mondo ad
essere offeso, ma anche un occhio sentito e partecipe,
che scandaglia, indaga e cerca in ogni dove barlumi
d’umanità nascosta.
Ci sono due scene, non a caso giustapposte dal
montaggio, curato da Marco Spoletini, dove questa
umanità, contenuta, sofferta e mai urlata
con eccessi da melodramma, s’insinua nel
mezzo delle brutture e dello squallore: nella
prima, Totò saluta l’amico d’infanzia
– il ragazzino si sta trasferendo altrove,
cambia “parrocchia” e banda criminale
insieme –, si baciano sulle guance e si
abbracciano per un attimo, sapendo che presto
uno dei due potrebbe morire per mano dell’altro;
nella seconda, Marco e Ciro “Pisellì”,
due amici scapestrati allevati nel culto di Scarface,
vengono picchiati dal boss del quartiere: hanno
rubato delle armi, nel tentativo di mettersi in
proprio, di non prendere ordini da nessuno. Ciro
sanguina, piange: ha paura. È Marco a farsi
forza, abbraccia l’amico e cerca di rassicurarlo.
Due abbracci diversi che tuttavia restituiscono
la dimensione fisica, di contatto, che il film
esplora con una forza mai vista prima: pochi campi
lunghi, montaggio ridotto all’osso, estesi
piani sequenza, e sempre quella cinepresa così
vicino ai volti, osservatore immanente, fratello
dei protagonisti e loro simile. Non stiamo guardando
– questa è vera forza di Gomorra,
la genialità del suo autore – un
documentario, né una finzione che non ci
sfiora: siamo lì, insieme a loro, sui sedili
posteriori delle auto durante le sparatorie, sul
ciglio delle discariche abusive, nelle stanze
da letto dove la gente muore esalando la parola
«Euro», nei corridoi bui che sembrano
burelli infernali (si deve spendere una parola
d’elogio per la splendida fotografia di
Marco Onorato, che dipinge un mondo dove l’ombra,
mai così atra, s’insinua in ogni
inquadratura).
Solo nella scena finale, la telecamera si distanzia,
si distacca dall’azione, ma senza concedere
a noi spettatori la facile consolazione di uno
scioglimento.
Breat Easton Ellis iniziava il suo romanzo American
Psyco con le parole «Lasciate ogni
speranza voi ch’entrate», e lo chiudeva
con: «Questa non è un’uscita».
Non c’è paradiso che attenda i protagonisti
di Gomorra, né i suoi spettatori.
Voto: 9
Andrea Morstabilini
Il terzo lungometraggio del
talentuoso e coraggioso regista romano è la trasposizione liberamente tratta
dal romanzo-inchiesta del giornalista e scrittore napoletano Roberto Saviano.
È un film coraggioso perché racconta la
camorra dal di dentro senza mai cadere nella retorica e nel facile
sensazionalismo paratelevisivo. I camorristi secondo Garrone sono omuncoli
volgari che uccidono in canottiera da mare o muoiono uccisi mentre si stanno
facendo la lampada; è veramente straordinaria la sequenza che apre il film, la
strage all’interno del centro estetico. Siamo lontano anni luce dall’idea che i
camorristi o i mafiosi siano degli eroi negativi così come siamo abituati a
vedere nei Gangster-movies americani, infatti i personaggi di Gomorra sono tutti brutti, sporchi e
cattivi, citando il titolo di un capolavoro di Scola. Il Gomorra garroniano è diverso da quello letterario per il semplice
motivo che il romanzo-inchiesta di
Saviano racconta O’ Sistema che è la camorra in tutti gli aspetti
socio-economici, invece il film ci immerge totalmente nel quartiere di Scampia
facendoci respirare, vivere e morire con i suoi abitanti e ci ricorda che
purtroppo il sole non batte più su Napoli e ce lo dice senza alcuna pietà e
misericordia anche nei confronti delle vittime. Sono emblematiche la figura
dimessa della donna, interpretata ottimamente dall’attrice-cantante Maria
Nazionale, che viene freddata a tradimento uscendo da casa perché il figlio è
uno scissionista e quella del pavido
pagatore delle famiglie affiliate, interpretato da Gian Felice Imparato, che
non vorrebbe essere al centro di una guerra di camorra. Un discorso a parte
merita il personaggio più sporco dentro, ma dall’aria perbene, interpretato dal
poliedrico Toni Servillo nel ruolo di Franco, un elegante uomo d’affari che
s’occupa del tristemente noto traffico di rifiuti tossici gestito della
camorra. Il personaggio di Servillo rappresenta lucidamente la faccia pulita e
assolutamente amorale del sistema camorrista che ha interessi economici in
tutto il pianeta, ci sono i soldi della camorra investiti anche nella
ricostruzione delle nuove Torri Gemelle.
Bellissimo è nella sua ingenua
goffaggine, il personaggio autobiografico del giovane incolpevole aiutante di
Franco che, sempre più frastornato dal suo principale,
prende finalmente coscienza del marcio in cui si trova a dover lavorare e trova
il coraggio di ribellarsi e abbandonare il campo. Assolutamente da vedere Gomorra, anche se personalmente nutro
qualche riserva sull’impianto troppo di stampo documentaristico
dell’operazione, senza pathos, per cui lo spettatore resta impietrito, ma non
emotivamente coinvolto. Necessario infine ricordare che Napoli non è solo la
città della spazzatura, della camorra e del degrado morale, etico e politico ma
è anche, anzi soprattutto, una città ferita ricca di cultura, bellezza ed arte,
quindi meriterebbe più rispetto come recentemente ha dichiarato il cantautore
Pino Daniele.
Voto: 8
Ettore Calvello