Gomorra

28/05/2008

di Matteo Garrone
con: Toni Servillo

Uscito nelle sale da poco più di una settimana, Gomorra di Matteo Garrone si è rivelato il vincitore assoluto nella guerra del box-office: con quasi due milioni di spettatori nel solo week-end del 18/05, Gomorra batte tutti, dai blockbuster hollywoodiani ai piccoli film indipendenti impreziositi da qualche grande star (si veda In Bruges, con Colin Farrell). E c’è la speranza che, dopo il Gran Premio della Giuria assegnatogli ieri a Cannes, le visioni di Gomorra raddoppino, triplichino, decuplichino: perché il film di Garrone va visto, da tutti – e non solo perché, notazione fin troppo semplice in periodi di battages pubblicitari agguerriti, ha un valore politico e sociale di prima grandezza. No: l’opera terza di Matteo Garrone va vista in primo luogo per se stessa, perché è un esempio di grande cinema, non solo italiano ma tout court.
Gomorra è un film magmatico, senza un inizio, un centro e una fine: contravviene alle norme di sceneggiatura classica, non si concede Spannung di facile emotività e sfugge, soprattutto, alla retorica scontata del film a tesi. Episodico non per vocazione ma per necessità, corale come i grandi affreschi altmaniani, Gomorra si snoda lungo sentieri che verrebbe facile definire, di volta in volta, pasoliniani, scorsesiani o con qualunque altro aggettivo cerchi d’accostare questo film ad altri presenti nella memoria cinematografica dello spettattore: è operazione sterile ed inconcludente, perché Gomorra è un’opera nuova, di rottura, un film che – ha ragione Sean Penn – resterà nel tempo.
Nelle mani di un altro regista, forse, il film sarebbe diventato niente più che l’epigono d’un certo cinema italiano, si pensi a Mery per sempre o Ragazzi fuori, che cerca di scandagliare gli abissi sociali con occhio morale quando non, peggio, moralista. Ma Garrone – che s’impone ormai come il regista più adulto, maturo e autoriale d’Italia, con Emanuele Crialese – fa della a-moralità la cifra costitutiva del suo sguardo filmico: il suo è un occhio offeso perché, per dirla con Vittorini, è il mondo ad essere offeso, ma anche un occhio sentito e partecipe, che scandaglia, indaga e cerca in ogni dove barlumi d’umanità nascosta.
Ci sono due scene, non a caso giustapposte dal montaggio, curato da Marco Spoletini, dove questa umanità, contenuta, sofferta e mai urlata con eccessi da melodramma, s’insinua nel mezzo delle brutture e dello squallore: nella prima, Totò saluta l’amico d’infanzia – il ragazzino si sta trasferendo altrove, cambia “parrocchia” e banda criminale insieme –, si baciano sulle guance e si abbracciano per un attimo, sapendo che presto uno dei due potrebbe morire per mano dell’altro; nella seconda, Marco e Ciro “Pisellì”, due amici scapestrati allevati nel culto di Scarface, vengono picchiati dal boss del quartiere: hanno rubato delle armi, nel tentativo di mettersi in proprio, di non prendere ordini da nessuno. Ciro sanguina, piange: ha paura. È Marco a farsi forza, abbraccia l’amico e cerca di rassicurarlo.
Due abbracci diversi che tuttavia restituiscono la dimensione fisica, di contatto, che il film esplora con una forza mai vista prima: pochi campi lunghi, montaggio ridotto all’osso, estesi piani sequenza, e sempre quella cinepresa così vicino ai volti, osservatore immanente, fratello dei protagonisti e loro simile. Non stiamo guardando – questa è vera forza di Gomorra, la genialità del suo autore – un documentario, né una finzione che non ci sfiora: siamo lì, insieme a loro, sui sedili posteriori delle auto durante le sparatorie, sul ciglio delle discariche abusive, nelle stanze da letto dove la gente muore esalando la parola «Euro», nei corridoi bui che sembrano burelli infernali (si deve spendere una parola d’elogio per la splendida fotografia di Marco Onorato, che dipinge un mondo dove l’ombra, mai così atra, s’insinua in ogni inquadratura).
Solo nella scena finale, la telecamera si distanzia, si distacca dall’azione, ma senza concedere a noi spettatori la facile consolazione di uno scioglimento.
Breat Easton Ellis iniziava il suo romanzo American Psyco con le parole «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate», e lo chiudeva con: «Questa non è un’uscita». Non c’è paradiso che attenda i protagonisti di Gomorra, né i suoi spettatori.

Voto: 9

Andrea Morstabilini

Il terzo lungometraggio del talentuoso e coraggioso regista romano è la trasposizione liberamente tratta dal romanzo-inchiesta del giornalista e scrittore napoletano Roberto Saviano. È  un film coraggioso perché racconta la camorra dal di dentro senza mai cadere nella retorica e nel facile sensazionalismo paratelevisivo. I camorristi secondo Garrone sono omuncoli volgari che uccidono in canottiera da mare o muoiono uccisi mentre si stanno facendo la lampada; è veramente straordinaria la sequenza che apre il film, la strage all’interno del centro estetico. Siamo lontano anni luce dall’idea che i camorristi o i mafiosi siano degli eroi negativi così come siamo abituati a vedere nei Gangster-movies americani, infatti i personaggi di Gomorra sono tutti brutti, sporchi e cattivi, citando il titolo di un capolavoro di Scola. Il Gomorra garroniano è diverso da quello letterario per il semplice motivo che il romanzo-inchiesta  di Saviano racconta O’ Sistema che è la camorra in tutti gli aspetti socio-economici, invece il film ci immerge totalmente nel quartiere di Scampia facendoci respirare, vivere e morire con i suoi abitanti e ci ricorda che purtroppo il sole non batte più su Napoli e ce lo dice senza alcuna pietà e misericordia anche nei confronti delle vittime. Sono emblematiche la figura dimessa della donna, interpretata ottimamente dall’attrice-cantante Maria Nazionale, che viene freddata a tradimento uscendo da casa perché il figlio è uno scissionista e  quella del pavido pagatore delle famiglie affiliate, interpretato da Gian Felice Imparato, che non vorrebbe essere al centro di una guerra di camorra. Un discorso a parte merita il personaggio più sporco dentro, ma dall’aria perbene, interpretato dal poliedrico Toni Servillo nel ruolo di Franco, un elegante uomo d’affari che s’occupa del tristemente noto traffico di rifiuti tossici gestito della camorra. Il personaggio di Servillo rappresenta lucidamente la faccia pulita e assolutamente amorale del sistema camorrista che ha interessi economici in tutto il pianeta, ci sono i soldi della camorra investiti anche nella ricostruzione delle nuove Torri Gemelle.

Bellissimo è nella sua ingenua goffaggine, il personaggio autobiografico del giovane incolpevole aiutante di Franco che, sempre più frastornato dal suo principale, prende finalmente coscienza del marcio in cui si trova a dover lavorare e trova il coraggio di ribellarsi e abbandonare il campo. Assolutamente da vedere Gomorra, anche se personalmente nutro qualche riserva sull’impianto troppo di stampo documentaristico dell’operazione, senza pathos, per cui lo spettatore resta impietrito, ma non emotivamente coinvolto. Necessario infine ricordare che Napoli non è solo la città della spazzatura, della camorra e del degrado morale, etico e politico ma è anche, anzi soprattutto, una città ferita ricca di cultura, bellezza ed arte, quindi meriterebbe più rispetto come recentemente ha dichiarato il cantautore Pino Daniele.

Voto: 8

Ettore Calvello